Il “diritto vivente” della Corte di cassazione sulla competenza per la conversione delle pene pecuniarie inflitte dal giudice di pace: dubbi di legittimità costituzionale
in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 6 – ISSN 2499-846X
Dichiarato incostituzionale l’originario istituto della conversione in pena detentiva della pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato, con la l. 24 novembre 1981 n. 689 (art. 102 ss.) è stato introdotto il sistema della conversione della pena pecuniaria in sanzioni sostitutive: più esattamente l’art. 102 l. 689/1981 menziona al riguardo come sanzioni sostitutive la libertà controllata (prevista dall’art. 55 stessa legge) oppure, su richiesta del condannato, il lavoro sostitutivo (previsto dall’art. 105).
Nel sistema “originario” della l. 689/1981, l’accertamento dell’insolvibilità del condannato e la conversione erano demandati al P.M. o al pretore quali organi competenti per l’esecuzione (art. 586, comma 3, c.p.p. previgente), mentre al magistrato di sorveglianza (del luogo di residenza del condannato) spettava soltanto il compito di determinare le modalità di esecuzione della sanzione sostitutiva già determinata dal P.M. o dal pretore (art. 107 l. 689/1981). L’art. 660 c.p.p. del “nuovo” codice di procedura penale del 1988 ha “trasferito” al magistrato di sorveglianza gli incombenti demandati dal codice previgente al P.M. o al pretore, stabilendo che spetta al magistrato di sorveglianza il compito di accertare l’effettiva insolvibilità del condannato, disporre la rateizzazione della pena ai sensi dell’art. 133-ter c.p. e/o la conversione. Giova ribadire che all’epoca dell’entrata in vigore dell’art. 660 c.p.p. l’unica ipotesi di conversione di pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato era quella divisata dall’art. 102 l. 24 novembre 1981 n. 689: di guisa soltanto a codesta ipotesi andava riferito l’art. 660 c.p.p.
Il procedimento di conversione incentrato sull’art. 660 c.p.p., infine, era caratterizzato ex artt. 181-182 disp. att. c.p.p. e art. 30 reg. esec. c.p.p. da una “frammentazione di competenze” (vedendo coinvolti la cancelleria del giudice dell’esecuzione, il pubblico ministero e il magistrato di sorveglianza) e da lunghi “giri di valzer” da un ufficio ad un altro, intercalati a loro volta tra inutili “soste intermedie” presso l’ufficio del pubblico ministero.
Più esattamente, tale procedimento si articolava nelle seguenti fasi: i) attivazione della procedura esecutiva da parte della cancelleria del giudice dell’esecuzione entro 30 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza (art. 181 disp. att. c.p.p.); ii) trasmissione di copia degli atti dalla cancelleria del giudice dell’esecuzione al pubblico ministero, in caso di esito negativo della procedura esecutiva per il recupero della pena pecuniaria (art. 182, comma 1, disp. att. c.p.p.); iii) trasmissione da parte del pubblico ministero degli stessi atti (ricevuti dalla cancelleria del giudice dell’esecuzione) al magistrato di sorveglianza competente [la cui individuazione, peraltro, implicava preventivi accertamenti da parte del P.M. ai fini dell’applicazione dei criteri sulla competenza divisati dall’art. 677, commi 1-2, c.p.p.] ai fini della conversione da parte di quest’ultimo (art. 660, comma 2, c.p.p.); iv) in caso di accertata insolvenza del condannato: a) conversione della pena pecuniaria da parte del magistrato di sorveglianza (normalmente in libertà controllata oppure, “a richiesta del condannato”, in lavoro sostitutivo: art. 102 l. 689/1981); b) trasmissione del provvedimento di conversione dal magistrato di sorveglianza al pubblico ministero richiedente; c) ulteriore successiva trasmissione del provvedimento di conversione da parte del pubblico ministero al magistrato di sorveglianza del luogo di residenza del condannato ai fini della determinazione delle modalità di esecuzione della sanzione conseguente alla conversione (art. 107 l. 689/1981); v) in caso di accertata solvibilità del condannato: a) restituzione degli atti al pubblico ministero da parte del magistrato di sorveglianza (art. 30, comma 1, reg. esec. c.p.p.); b) successiva comunicazione da parte del pubblico ministero dell’accertata solvibilità del condannato alla cancelleria del giudice dell’esecuzione con la richiesta di rinnovo degli atti esecutivi (art. 30, comma 2, reg. esec. c.p.p.); c) rinnovazione degli atti esecutivi da parte della cancelleria del giudice dell’esecuzione (art. 30, comma 2, reg. esec. c.p.p.): con la “ripresa del giro di valzer”, ovviamente, in caso di esito infruttuoso del rinnovo degli atti esecutivi per una ragione qualunque (ad esempio, per il trasferimento o la perdita nelle more dei beni accertati nella precedente fase del procedimento innanzi al magistrato di sorveglianza).
In virtù dell’art. 1 c.p.p., il sistema di conversione come sopra delineato riguardava, ovviamente, le pene pecuniarie inflitte o applicate dai giudici penali “ordinari” (della cognizione) operanti al momento dell’entrata in vigore del c.p.p. del 1988 (pretore, tribunale, corte di assise, corte di appello e corte di assise di appello).
Con il d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, è stato “affiancato” al modello “ordinario” di procedimento penale (quello disciplinato dal codice di procedura penale) un procedimento specifico per i reati devoluti alla competenza del giudice di pace, il quale è stato concepito come un “microsistema di tutela integrata” avente “caratteri assolutamente peculiari, che lo rendono non comparabile con il procedimento davanti al tribunale, e comunque tali da giustificare sensibili deviazioni rispetto al modello ordinario”.
Tale procedimento si caratterizza in particolare: i) per il fatto che, mentre le funzioni requirenti sono svolte dal procuratore della Repubblica presso il tribunale, quelle non requirenti (o “giudicanti” lato sensu) sono esercitate in tutto il procedimento [compreso quello di esecuzione] soltanto dal giudice di pace, il quale, per la maggiore vicinanza al corpo sociale in quanto magistrato onorario, è sembrato più idoneo a realizzare “un riavvicinamento della collettività all’amministrazione della giustizia anche nel delicato settore del diritto penale” e a favorire quella conciliazione che “costituisce l’obbiettivo principale della giurisdizione penale affidata al giudice di pace”; ii) per le sue “finalità di snellezza, semplificazione e rapidità”; iii) per la “specialità” del relativo sistema sanzionatorio, al quale – da una parte – restano assolutamente estranee tutte le sanzioni principali non pecuniarie (reclusione e arresto) e tutte le sanzioni sostitutive (semidetenzione e libertà controllata: art. 53 ss. l. 689/1981) applicabili dal giudice “ordinario” [v. art. 62 d. lgs. 274/2000]; e al quale – dall’altra parte – ineriscono sanzioni principali [c.d. paradetentive: la permanenza domiciliare (art. 53 d. lgs. 274/2000 ) ed il lavoro di pubblica utilità (art. 54 d. lgs. 274/2000)] o sanzioni sostitutive [la permanenza domiciliare e il lavoro di pubblica utilità (art. 55 stesso d. lgs.), nonché l’espulsione sostitutiva di pena pecuniaria (art. 62-bis stesso d. lgs.)] applicabili soltanto dal giudice di pace: la cui “competenza” esclusiva al riguardo non solo si desume sistematicamente dal mancato inserimento di tali sanzioni nel “catalogo” generale delle pene principali contenuto nel codice penale (art. 22 ss. c.p.), ma viene ex professo sancita dal d. lgs. 274/2000, nel cui titolo II (artt. 52-62-bis) si concentra e si esaurisce la disciplina delle sanzioni applicabili esclusivamente dal giudice di pace tanto in via diretta quanto in sede di conversione delle pene pecuniarie (art. 55) o in funzione sostitutiva di queste ultime (art. 62-bis)); iv) per una fase esecutiva incentrata tutta sulle suindicate esigenze di semplificazione e celerità, le quali si concretizzano nella concentrazione delle competenze nel minor numero possibile di organi, nella conseguente tendenziale coincidenza tra il giudice dell’esecuzione e il giudice di pace che ha emesso il provvedimento da eseguire (art. 40, comma 1) [coincidenza derogata soltanto in presenza di ragionevoli e valide ragioni], nella “gestione” prevalentemente “amministrativa” delle sanzioni paradetentive [demandata in massima parte al pubblico ministero ed agli organi di polizia, esaurendosi l’intervento del giudice di pace nella sola modifica delle modalità di esecuzione di quelle sanzioni stabilite nella sentenza: v. artt. 42-43); v) sempre in attuazione di codeste esigenze di semplificazione e di concentrazione delle competenze in executivis, per la valorizzazione del ruolo del giudice di pace anche nell’esecuzione delle pene pecuniarie, attribuendosi allo stesso (giudice di pace) pure le competenze demandate dall’art. 660 c.p.p. al magistrato di sorveglianza ai fini della loro conversione (art. 42): e ciò al dichiarato fine di “evitare gli inconvenienti, avvertiti nell’applicazione della disciplina attualmente vigente, derivanti dalla frammentazione delle competenze tra giudice dell’esecuzione e magistrato di sorveglianza”
A quest’ultimo proposito si sottolinea che il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inflitte dal giudice di pace, risultante dalle disposizioni ex artt. 181-182 disp. att. c.p.p. e da quelle ex art. 660 c.p.p. coordinate con le norme “speciali” relative al procedimento davanti al giudice di pace [art. 42 d. lgs. 274/2000 e art. 18 d.m. 6 aprile 2001 n. 204] si articolava nelle seguenti fasi: i) attivazione della procedura esecutiva da parte della cancelleria del giudice di pace quale giudice dell’esecuzione entro 30 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza (art. 181 disp. att. c.p.p.); ii) trasmissione di copia degli atti dalla cancelleria del giudice di pace quale giudice dell’esecuzione al pubblico ministero, in caso di esito negativo della procedura esecutiva per il recupero della pena pecuniaria (art. 182, comma 1, disp. att. c.p.p.); iii) trasmissione degli stessi atti da parte del pubblico ministero al giudice di pace quale giudice dell’esecuzione con la richiesta di conversione (art. 660, comma 2, c.p.p. e art. 42 d. lgs. 274/2000); iv) in caso di accertata insolvenza del condannato, conversione della pena pecuniaria in sanzioni costituite dalle medesime (diverse da quella pecuniaria) applicabili ex directo dal giudice di pace ai sensi degli artt. 52-54: vale a dire, normalmente dall’obbligo di permanenza domiciliare oppure, “a richiesta del condannato”, dal lavoro di pubblica utilità (art. 55 d. lgs. 274/2000 e art. 18 d. m. 204/2001); v) in caso di accertata solvibilità del condannato, ordine da parte del giudice di pace quale giudice dell’esecuzione alla sua stessa cancelleria di provvedere al rinnovo degli atti esecutivi, del quale (rinnovo) veniva data semplice comunicazione al pubblico mistero ( 18 d.m. 6 aprile 2001 n. 204).
Trattasi, all’evidenza, di un procedimento assai più spedito, agile e lineare rispetto a quello divisato per la conversione delle pene pecuniarie applicate dal giudice “ordinario”: soprattutto perché concentrava in un solo organo (il giudice di pace che ha emesso il provvedimento: comb. disp. artt. 40, comma 1, 42 e 55 d. lgs. 274/2000) la competenza che, invece, rispetto alle pene pecuniarie applicate dal giudice “ordinario” risultava ripartita tra tre diversi organi giudicanti costituiti: 1) dal giudice dell’esecuzione (recte: dalla sua cancelleria) per l’iniziale attivazione della fase esecutiva e l’eventuale rinnovo degli atti esecutivi in caso di successivo accertamento della solvibilità del condannato da parte del magistrato di sorveglianza; 2) dal magistrato di sorveglianza territorialmente competente ex art. 677 c.p.p. per l’accertamento dell’insolvenza del condannato e la conseguente pronuncia del provvedimento di conversione; 3) dal magistrato di sorveglianza del luogo di residenza del condannato (che poteva anche non coincidere con quello individuabile con i criteri ex art. 677 c.p.p.) per la determinazione delle modalità di esecuzione delle sanzioni conseguenti alla conversione.
Come citare il contributo in una bibliografia:
G. Vignera, Il “diritto vivente” della Corte di cassazione sulla competenza per la conversione delle pene pecuniarie inflitte dal giudice di pace: dubbi di legittimità costituzionale, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 6