Quando il carcere non è più carcere
in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 3 – ISSN 2499-846X
Le cronache penitenziarie di questi giorni ci offrono lo spunto per alcune brevi riflessioni.
Come a tutti noto, l’attività di rieducazione nelle carceri tende a creare le premesse affinché il luogo dove si eseguono le pene sia sempre di più un luogo di inclusione e sempre di meno un luogo di esclusione. Alcuni detenuti in questi giorni hanno mostrato una forte e decisa intolleranza al carcere, debordando, è il caso di dire, in una violenta attività di rivolta, di opposizione al regime penitenziario.
Il bilancio è di morti e feriti oltreché di distruzione. Il tutto, soprattutto in due maledetti giorni, tra sabato 7 e domenica 8 marzo. Speriamo che sia finita qui. Il personale di Polizia che lavora nelle carceri è stato colto di sorpresa, probabilmente perché non si aspettava una reazione così violenta, in luoghi orientati come sopra detto ad essere luoghi di inclusione e di solidarietà.
In questi anni, l’Amministrazione penitenziaria ha messo in campo il volto Umano dell’esecuzione penale, rincorrendo emergenze, in un sistema che, nonostante le difficoltà di risorse umane e materiali, ha sempre teso la mano al carcerato, mostrandogli il ramoscello d’ulivo piuttosto che il manganello.
Le cronache degli ultimi 20 anni non mi pare raccontino di operazioni di Polizia penitenziaria per sedare rivolte o per contrastare azioni collettive di danneggiamento. Fa male, quindi, vedere, come i detenuti si siano rivoltati proprio nei confronti di chi, da anni, sta cercando di tendere la mano a chi è stato escluso, a chi è stato portato o deportato in carcere, anche dopo aver subito la pena di un processo sempre più lungo e alle volte sempre meno comprensibile, come quando si rincorrono appelli e cassazioni, rinvii e contro rinvii, sulla pelle degli imputati.
In Italia, problemi come la tossicodipendenza, l’immigrazione clandestina e perfino l’emarginazione sociale, sono stati periodicamente, ma costantemente, criminalizzati e portati dentro le carceri, usando il carcere quasi come discarica sociale e dimenticando spesso che, a un certo punto, anche una vera discarica arriva o può arrivare ad un livello di tutto pieno.
L’Italia ha criminalizzato e continua a criminalizzare anche l’assunzione di droga, ma non mi pare che così facendo sia riuscita a risolvere il problema dello spaccio della droga; nelle nostre città è sotto gli occhi di tutti come continuino a circolare fiumi di droga che avvelenano i nostri giovani e inquinano le nostre attività.
Ha criminalizzato l’immigrazione clandestina, ma non mi pare che siano cessati gli sbarchi o che i disperati, che sono arrivati nel nostro Paese perché in fuga da una guerra o perché semplicemente in fuga dalla fame più nera, siano stati messi nelle condizioni di vivere una vita dignitosa.
Così per l’emarginazione sociale, salvo qualche spot pubblicitario di accoglienza, in case gestite in maggioranza da religiosi, non mi pare sia stato fatto granché; tutti noi continuiamo a vedere senzatetto nelle stazioni delle nostre città, a volte umiliati, non solo dalla povertà, ma anche dalla totale indifferenza di una società che premia sempre di più i più forti e punisce sempre più atrocemente i deboli, gli esclusi, gli ultimi.
Ma non voglio dire cose banali o cadere nell’ovvietà. Torno subito alla riflessione oggetto di questo scritto. Ma la premessa è importante per giungere alla conclusione.
Perché oggi assistiamo a scene così drammatiche nelle nostre carceri?
L’errore è proprio nella premessa: aver affidato al carcere la soluzione di problemi che non sono risolvibili con il carcere, ma che devono, invece, essere risolti dalla società; e averli affidati al carcere, in modo indifferenziato. Così sono stati accomunati, ma possiamo dire ammassati in carcere o nelle celle, degli uomini solo in virtù della loro condizione sociale, ossia in quanto tossicodipendenti o in quanto stranieri, residenti abusivamente nel nostro territorio o in quanto emarginati.
Invece, ogni uomo ha una sua storia e non tutti gli uomini rispondono allo stesso trattamento.
Se il carcere dovrà continuare a svolgere questa funzione, non sua propria, di contenimento delle estremizzazioni del disagio sociale, il carcere non potrà più muoversi sempre e allo stesso modo accostando individui tra loro assai diversi, con culture differenti e con esperienza diverse solo sulla base della classificazione sociale. Il tunisino violento non può stare con l’emarginato debole. Il rapinatore seriale, lo stalker, non può stare con il tossicodipendente. Non tutti allo stesso modo costituiscono la devianza povera.
Le nostre carceri, per tornare ad essere carceri, devono trovare il modo di adattarsi alle peculiarità degli uomini che vengono amministrati in carcere.
Non dobbiamo più permettere che alcuni uomini distruggano reparti tra i più avanzati in senso trattamentale (mi riferisco ad esempio alla “Nave” di Milano S.Vittore) danneggiando, in tal modo, non solo lo Stato, ma tutti quegli altri detenuti che tutti i giorni frequentano o frequentavano quel reparto e sono usciti da quel reparto effettivamente migliorati. Se ci sono persone violente, lo Stato deve saper rispondere energicamente a tali uomini, mettendoli in condizioni di non nuocere; non li possiamo mettere assieme ai più deboli e soprattutto non li possiamo trattare come se fossero persone deboli.
Questo ritengo sia l’errore che è stato commesso in questi anni; non ci si è accorti che la delinquenza, quella vera, si annida proprio negli spazi della società fuori controllo, tra i tossicodipendenti, gli emarginati e gli stranieri in condizioni di bisogno e tende a confondersi con questi.
E così a spazi sociali fuori controllo abbiamo replicato spazi di costrizione fuori controllo. Sono stati criminalizzati gli ultimi, ma abbiamo chiuso in casa dei delinquenti veri, che ora hanno mostrato tutta la loro indole criminale e delinquenziale.
Il germe della rivolta si è annidato e si annida qui, nell’indistinzione buonista del delinquente che ha pervaso e pervade negli ultimi anni, il sistema penitenziario.
Come ne usciamo.
Portiamo fuori dalle carceri chi non ci deve stare, chi suo malgrado è incappato nella morsa dello stigma sociale. Oppure portiamoli in luoghi diversi dal carcere. Teniamoci in carcere i delinquenti, quelli veri, perché dobbiamo restituirli alla società migliorati o rieducati all’osservanza delle regole. Restituiamo, quindi, la droga, l’immigrazione e l’emarginazione alla società civile, perché si organizzi come meglio creda, per la gestione di questi problemi, come sta facendo per i malati di mente.
Il carcere tornerà ad essere carcere.
Come citare il contributo in una bibliografia:
S. Romice, Quando il carcere non è più carcere, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 3