Clan Fasciani di Ostia e “mafie locali”: la sentenza della Cassazione
Cassazione Penale, Sez. II, 16 marzo 2020 (ud. 29 novembre 2019), n. 10255
Presidente Diotellavi, Relatore Ariolli
1. Segnaliamo, in considerazione dell’interesse mediatico della vicenda, la sentenza con cui la Corte di Cassazione – pronunciandosi sul ricorso presentato avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma che aveva fatto seguito ad una precedente sentenza di annullamento con rinvio della stessa Cassazione – ha nuovamente affrontato il tema della configurabilità del delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) con riferimento alla cd. mafia “non tradizionale” (rappresentata, nel caso specifico, dalla attività criminale del clan Fasciani di Ostia).
Il nucleo della fattispecie incriminatrice – si legge nella pronuncia – «si colloca nel terzo comma dell’art. 416-bis cod. pen., laddove il legislatore definisce, assieme, metodo e finalità dell’associazione mafiosa – in sostanza, quelle finalità che si qualificano solo se c’è uno specifico “metodo” che le alimenta – delineando in tal modo un reato associativo non soltanto strutturalmente peculiare, ma, soprattutto, a gamma applicativa assai estesa, perché destinato a reprimere qualsiasi manifestazione associativa che presenti quelle caratteristiche di metodo e fini».
Ne deriva che «le associazioni che non hanno una connotazione criminale qualificata sotto il profilo “storico” dovranno essere analizzate nel loro concreto atteggiarsi, in quanto per esse “non basta la parola” (il nomen di mafia, camorra, ‘ndrangheta, ecc.); ed è evidente, che, in questa opera di ricostruzione, occorrerà porre particolare attenzione alle peculiarità di ciascuna specifica realtà delinquenziale, in quanto la norma mette in luce un problema di “assimilazione” normativa alle mafie “storiche” che rende necessaria un’attività interpretativa particolarmente attenta a porre in risalto “simmetrie” fenomeniche tra realtà fattuali, sociali ed umane diverse fra loro».
I giudici di legittimità proseguono osservando come il «fulcro del processo di “identificazione” non possa, dunque, fare riferimento che sul paradigma del metodo: è di tipo mafioso – puntualizza, infatti, l’art. 416- bis cod. pen. – l’associazione i cui partecipanti “si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo e ell’assoggettamento e di omertà che ne deriva”. Il metodo mafioso, così come descritto dal terzo comma dell’art. 416-bis cod. pen., colloca la fattispecie all’interno di una classe di reati associativi che, parte della dottrina, definisce “a struttura mista”, in contrapposizione a quelli “puri”, il cui modello sarebbe rappresentato dalla “generica” associazione per delinquere di cui all’art. 416 cod. pen. La differenza consisterebbe proprio in quell’elemento “aggiuntivo” rappresentato dal metodo, ma con effetti strutturali di significativa evidenza».
2. Ciò chiarito, secondo la Corte di Cassazione la vicenda fattuale, così come descritta dai giudici di merito, «rappresenta un emblematico esempio di c.d. “mafia locale”, vale a dire di raggruppamento che persegue gli obiettivi delineati dall’art. 416-bis, comma 3, cod. pen., attraverso la metodologia ivi menzionata, essendo indubbio che l’ultimo comma della richiamata disposizione incriminatrice fa riferimento alle ipotesi prive di una qualsiasi connotazione di nomenclatura tradizionale, che vedano la propria vita ed operatività circoscritta entro ambiti territoriali, seppure limitati».
«L’intensità del vincolo di assoggettamento omertoso, la natura e le forme di manifestazione degli strumenti intimidatori, gli specifici settori di intervento e la vastità dell’area attinta dalla egemonia del sodalizio, le molteplicità dei settori illeciti di interesse, la caratura criminale dei soggetti coinvolti, la manifestazione esterna del potere decisionale, la sudditanza degli interlocutori istituzionali e professionali sono tutti elementi che vengono a comporre il mosaico delle condizioni di applicazione della fattispecie, a determinarne il relativo coefficiente di offensività e la “gravità”, evidentemente significativa anche agli effetti del soddisfacimento del principio di proporzionalità nella determinazione del trattamento sanzionatorio».
Sulla base delle argomentazioni nel complesso evidenziate – conclude la Corte di Cassazione – «si può affermare che anche la città di Roma ha conosciuto l’esistenza di una presenza “mafiosa”, sebbene in modo diverso da altre città del Sud, ma non per questo meno pericolosa o inquinante il tessuto economico-sociale di riferimento».