Divieto di utilizzazione di intercettazioni disposte in procedimento diverso. Prime applicazioni dei principi sanciti dalle Sezioni Unite Cavallo.
Cass. pen., Sez. IV, Sent. 8 luglio 2020 (ud. 25 giugno 2020), n. 20127
Presidente Fumu, Relatore Pezzella
Con la sentenza in epigrafe, la Sezione quarta della Corte è tornata a pronunciarsi su un tema quantomai attuale, consistente nella corretta interpretazione del divieto di utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi previsto dall’art. 270 c.p.p.
Sul punto è appena il caso di ricordare, in primo luogo, che le Sezioni Unite, con la Sentenza Cavallo (pubblicata in questa Rivista, ivi, e successivamente commentata da S. Parziale e C.M. Cova) hanno recentemente affrontato il medesimo tema, stabilendo che “il divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen. di utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali siano state autorizzate le intercettazioni – salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza – non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 cod. proc. pen. a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge”. (Il principio di diritto è stato successivamente applicato da Cass. 11745/2020)
In secondo luogo, la recente riforma delle intercettazioni (d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, convertito con modificazioni dalla l. 28 febbraio 2020, n. 7, pubblicato in questa Rivista, ivi), che sarà in vigore dal prossimo 1 settembre (si veda sul punto la proroga operata dall’art. 1, d.l. 30 aprile 2020, n. 28, pubblicato in questa Rivista, ivi), ha diminuito la portata di tale divieto, modificando l’art. 270, comma 1, c.p.p. come segue “I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e dei reati di cui all’articolo 266, comma 1”. (Per una lettura critica di tale norma, si veda il contributo di F. S. Cassibba).
Nel caso di specie, le intercettazioni erano state disposte nel procedimento penale iscritto a carico di ignoti per il reato di riciclaggio di cui all’art. 648 bis cod. pen., che veniva successivamente tramutato ed iscritto a carico dei soggetti indagati per i reati di associazione per delinquere finalizzata all’emissione di fatture per operazioni inesistenti ed autoriciclaggio.
Al fine di dimostrare l’inapplicabilità del divieto ex art. 270 c.p.p., il Ricorrente evidenziava l’omogeneità tra i procedimenti penali, non potendo ritenersi il procedimento diverso in termini tecnici, dal momento che il procedimento a carico di ignoti sarebbe stato lo stesso poi confluito nel procedimento iniziato a seguito dell’identificazione degli indagati per i reati di cui agli artt. 416, 648 ter.1 cod. pen. e 8 d.lgs. 74/2000.
Più in particolare, i titoli di reato per cui erano state disposte le intercettazioni sarebbero stati omogenei, in quanto le intercettazioni erano state disposte inizialmente per il reato di riciclaggio e poi utilizzate per il reato di autoriciclaggio, connesso ex art. 12, lett. b e c, c.p.p. con i reati presupposti di associazione per delinquere e di emissione delle fatture per operazioni inesistenti.
Ad avviso del Ricorrente entrambi i reati di riciclaggio e di autoriciclaggio postulano la commissione di reati presupposto, differenziandosi tra loro perché nell’autoriciclaggio, l’autore del reato presupposto è lo stesso che compie la condotta delittuosa conseguente e non un soggetto terzo estraneo di cui si reinvestono i proventi delittuosi.
Nel caso di specie, individuando gli autori delle condotte delittuose di riciclaggio, sarebbe emerso che gli stessi fossero anche autori dei reati presupposti, tramutando così la qualificazione giuridica del fatto in autoriciclaggio.
Infine, le intercettazioni avrebbero dovuto essere ritenute utilizzabili, a causa della connessione ex art. 12 lett. b) e c), c.p.p. tra il reato di (auto)riciclaggio, per cui venivano disposte “ab origine”, ed i reati presupposto, quali il reato associativo ed i reati fiscali, compiuti in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, nonché avvinti dal nesso teleologico con il reato di autoriciclaggio.
La Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso, poiché fondato su una censura manifestamente infondata.
Per giungere a tale conclusione, il Supremo Collegio ha anzitutto ritenuto di dover “verificare se tali delitti costituissero un “procedimento diverso” rispetto a quello in cui le intercettazioni erano state disposte, fermo restando (…) che, come ben chiarito dalle Sezioni Unite, la nozione di “procedimento diverso” non coincide con quella di “diverso reato” (essendo la prima più ampia della seconda). E nemmeno la nozione di “procedimento diverso” può essere ricollegata a un dato di ordine meramente formale qual è il numero di iscrizione nell’apposito registro della notizia di reato (posto che la formale unità dei procedimenti sotto un unico numero di registro generale non può fungere da schermo per l’utilizzabilità indiscriminata delle intercettazioni in procedimenti privi di collegamento reale), ma è invece decisivo il riferimento al contenuto della notizia di reato, ossia al fatto-reato in relazione al quale il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono le indagini necessari e per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale. Fatto-reato che ben può essere lo stesso – come precisano le SS.UU. Cavallo, in motivazione – inizialmente iscritto a carico di ignoti e poi a carico di noti”.
Aderendo alla posizione assunta nel provvedimento oggetto di ricorso, la Corte sul punto ha espresso un avviso negativo, atteso che “nel caso di specie, il contenuto della notizia di reato posta a base di tutti i provvedimenti di intercettazione attiene al reato di riciclaggio ex art. 648 bis cod. pen. (…), ipotizzato a carico di ignoti (…).
In sostanza (…), il contenuto della notizia di reato posta a base di tutti i provvedimenti di intercettazione attiene all’ipotizzata disponibilità (di uno degli indagati, ndr) ad utilizzare il conto corrente della società (…) per ostacolare l’identificazione della ipotizzata provenienza delittuosa di somme, facendole confluire su tale conto corrente.
Ebbene, corretto appare il rilievo che, avendo le SS.UU. Cavallo escluso la rilevanza, ai fini che qui interessano, del collegamento investigativo di cui all’art. 371 cod. proc. pen., restasse solo da verificare se la suindicata notizia di reato ex art. 648 bis c.p. (posta a base di tutti i provvedimenti di intercettazione) potesse ritenersi connessa ex art. 12 cod. proc. pen. con il delitto di cui agli artt. 61 n. 2, 61 bis, 416 c.p. (…) e con i delitti di cui agli artt. 110 c.p.. 8 D. Lgs. 74/2000 (…).
Esclusa pacificamente l’ipotesi di cui alla lettera a) dell’art. 12 cod. proc. pen. (non trattandosi di un unico reato commesso da più persone in concorso o cooperazione tra loro, o di un unico evento determinato da più persone con condotte indipendenti), deve essere altresì esclusa l’ipotesi di cui alla lettera b) dell’art. 12 cod. proc. pen., non trattandosi né (pacificamente) di un concorso formale di reati, né di un reato continuato. E ciò in considerazione dell’assenza del requisito del medesimo disegno criminoso, per la cui integrazione sarebbe stato necessario che già al momento della commissione del primo reato della serie, e cioè quello di riciclaggio ipotizzato con le suindicate modalità, i successivi, e cioè quelli costituenti titolo cautelare, fossero stati realmente già programmati almeno nelle loro linee essenziali, il che non risulta dagli atti e non è nemmeno astrattamente ipotizzabile alla luce della espressa clausola di riserva contenuta nella nonna di cui all’art. 648 bis cod. pen.(…)”.
Secondo la Corte, “deve essere altresì esclusa l’ipotesi di cui alla lettera c) dell’art. 12 cod. proc. pen. non risultando in alcun modo dagli atti che l’ipotizzato reato di riciclaggio sia stato commesso né per eseguire (e ciò pacificamente) né per occultare gli ipotizzati reati di associazione per delinquere e di emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, giacché l’ipotizzata disponibilità (dell’indagato, ndr) ad utilizzare il conto corrente della società (…) per ostacolare l’identificazione dell’ipotizzata provenienza delittuosa di somme, facendole confluire su tale conto corrente, non è idonea, nemmeno in astratto, ad occultare i menzionati reati (…). E ciò vale (…) non solo (pacificamente) per l’associazione per delinquere, ma anche per l’emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti che, secondo l’ipotesi accusatoria, proprio i gestori di fatto e di diritto della predetta società avrebbero posto in essere e che quindi giammai avrebbero potuto occultare utilizzando proprio il conto corrente di tale società”.
Pertanto, ad avviso del Supremo Collegio, “L’inevitabile conclusione, corretta in punto di diritto, (…) è che, nella vicenda in esame, dovesse ritenersi operante il divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen. di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate, sicché sono inutilizzabili, in relazione ai reati di associazione per delinquere e di emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, i risultati delle intercettazioni disposte esclusivamente in ordine al reato di cui all’art. 648 bis cod. pen. (…)”.