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Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio

in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 7-8 – ISSN 2499-846X

Il d.l. 16 luglio 2020, n. 76, intestato alle «semplificazioni», modifica, all’art. 23, la fattispecie dell’art. 323, comma 1° c.p., già integralmente riformulata dall’art. 1, l. 16 luglio 1997, n. 234: un ennesimo intervento «riformatore» seguìto a quello, di più ampio respiro sistematico, compiuto con la l. 26 aprile 1990, n. 86, e condotto – ancora una volta, vien fatto di dire – all’insegna del principio di tassatività e di determinatezza; che sinora, evidentemente, e nonostante gli sforzi profusi, il legislatore non sarebbe stato in grado di assicurare. Il proposito perseguito è di liberare amministratori e politici dalle ambasce che ogni scelta discrezionale, compiuta nell’esercizio del potere corrispondente all’esercizio delle loro funzioni, provocherebbe loro, in quanto connessa alla minacciosa prospettiva di un’indagine penale e di una successiva incriminazione. L’incipit di un ipotetico cahier de doléances redatto dai pubblici agenti perplessi e tremebondi sonerebbe a un dipresso in questi termini: uno spettro s’aggira per gli enti e per gli organi della Repubblica; lo spettro dell’abuso d’ufficio.

Il timore che turba i sonni e agita le menti – va pur riconosciuto – non è privo di fondamento. Del resto, la riformulazione introdotta con la l. 234/1997, a distanza di soli sette anni da una vasta e articolata riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. (tra cui, non ultimo, anche l’art. 323), prese avvio dal ‘grido di dolore’ lanciato dall’ANCI, che lamentava l’incontrollabilità del rischio penale sotteso alla dimensione tipica e alla latitudine applicativa del nuovo abuso d’ufficio. Il Ministro della giustizia nominò, nel 1996, una commissione di studio presieduta da Giuseppe Morbidelli, che, dopo un intenso lavoro, propose lo «spacchettamento» dell’onnivora fattispecie di abuso in tre distinte ipotesi criminose: prevaricazione; favoritismo affaristico; sfruttamento privato dell’ufficio, definite in termini tipici consentanei al contenuto offensivo in ciascuna identificato. La proposta non ebbe tuttavia alcun seguito, e fu viceversa introdotto – piuttosto in fretta e per ragioni affidate all’oracolo (infra, 2) – il testo vigente sino al  d.l. 76/2020.

L’insofferenza verso le maglie lasche dell’art. 323 è dunque risalente, e poggia, indubitabilmente, su di uno iato vistoso tra la legalità «offerta» dalla norma quale selettore dell’iniziativa di indagine, e la legalità «raggiunta» all’esito del procedimento, quando sulla base della norma si definiscono i limiti concreti di rilevanza di questa o quella condotta contestata. Basta considerare il numero dei procedimenti avviati per abuso d’ufficio e quelli conclusi con una condanna, per rilevare tra i numeri un divario apparentemente paradossale: da uno a cento, all’incirca. La prescrizione può certamente giocare la sua parte, come è stato rilevato, ma non può, da sola, dar ragione di una tale asimmetria, le cui radici affondano piuttosto nella straordinaria facilità con cui può essere avviata un’indagine per abuso d’ufficio: un atto investito dal sospetto, più o meno qualificato, di una finalità privata, autorizza (o, come talvolta dicono compuntamente i pubblici ministeri, «impone») lo svolgimento di indagini; che si snodano, va da sé, rispettando i tempi della giustizia, notoriamente biblici, nel mentre però gli effetti esiziali delle indagini in corso determinano la punizione effettiva del presunto reo, «senza legge, senza verità, senza colpa», come icasticamente recita il sottotitolo del «Diritto penale totale» di Filippo Sgubbi.

Fermo restando dunque che questo genere di preoccupazioni sono, in linea di principio, tutt’altro che peregrine, la domanda che sorge prepotente è come mai il problema si ripresenti periodicamente, periodicamente venga affrontato con la pretesa di risolverlo, e di poi lo si ritrovi di bel nuovo come una pietra d’inciampo resistente ad ogni livella. Per comprendere le ragioni per cui ci ritroviamo (apparentemente immemori) sempre allo stesso punto di partenza, occorre uno sguardo retrospettivo: per stabilire di che pasta siam fatti, dobbiamo in qualche modo recuperare le origini.

Come citare il contributo in una bibliografia:
T. Padovani, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 7-8