ARTICOLIDIRITTO PENALE

La Cassazione torna ad esprimersi sulla struttura del reato di traffico di influenze illecite e sulla distinzione dal reato di corruzione.

Cass. pen., Sez. VI, Sent. 6 agosto 2020 (ud. 24 giugno 2020), n. 23602
Presidente Petruzzellis, Relatore Bassi

Con la pronuncia in epigrafe la Corte di cassazione si è pronunciata in merito alla struttura del reato di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.) e agli elementi che lo distinguono dal reato di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.).

Va anzitutto ricordato che la fattispecie in questione, introdotta nell’ordinamento con l’art. 1, comma 75, Legge 6 novembre 2012, n. 190 (cd. Legge Severino), è stata oggetto di riforma ad opera della Legge 9 gennaio 2019, n. 3 (cd. Spazzacorrotti), la quale ha ampliato la portata applicativa della norma, estendendola anche a condotte precedentemente riconducibili alla fattispecie di millantato credito (art. 346 c.p.), che è stata contestualmente abrogata (sul problematico rapporto tra le fattispecie ex artt. 346 e 346 bis c.p. prima del più recente intervento normativo, si vedano i contributi di S. Metrangolo e S. Treglia).

Tanto premesso, è appena il caso di illustrare il fatto oggetto della pronuncia qui allegata: nel proprio ruolo di commercialista l’imputato aveva intermediato, per conto e nell’interesse del proprio cliente, il versamento da parte di quest’ultimo della somma di 4.000,00 euro a due appartenenti della Guardia di Finanza, ai fini del compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio nella redazione del processo verbale di constatazione nel corso della verifica fiscale sulla società di proprietà del cliente, che essi stavano effettuando presso lo studio professionale dell’imputato.

Il giudice del merito aveva qualificato il fatto come corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio ex art. 319 c.p., ed aveva subordinato la sospensione condizionale della pena al pagamento da parte dell’imputato della somma di 4.000,00 euro.

Nell’impugnazione il ricorrente si doleva della qualificazione del fatto, a suo dire riconducibile alla più mite fattispecie ex art. 346 bis c.p.: egli si era infatti limitato a tentare di convincere i finanzieri, in ragione dei suoi buoni rapporti da tempo esistenti con la G.d.F., ad addivenire a una preventiva operazione di ravvedimento operoso per evitare la denuncia penale, con successivo “regalo” per il piacere ottenuto.

Il Collegio ha rigettato il motivo, dopo averlo dichiarato inammissibile. Ha, infatti, ricordato la Corte che “la fattispecie del traffico d’influenze illecite non è configurabile allorché sia stato accertato un rapporto alterato e non paritario fra il pubblico ufficiale ed il soggetto privato, appunto integrante il più grave delitto di corruzione (…). Il delitto di traffico di influenze, di cui all’art. 346-bis cod. pen., si differenzia difatti, dal punto di vista strutturale, dalle fattispecie di corruzione per la connotazione causale del prezzo, finalizzato a retribuire soltanto l’opera di mediazione e non potendo, quindi, neppure in parte, essere destinato all’agente pubblico (…)”.

Per conseguenza, hanno concluso i Giudici, “nel caso sub iudice non v’è materia per la derubricazione del fatto nell’ipotesi di cui all’art. 346-bis cod. pen., là dove (…) risulta accertato il versamento di una somma di denaro al fine di remunerare il mercimonio dell’atto d’ufficio dei due appartenenti alla Guardia di Finanza e si appalesa, pertanto, perfezionata l’ipotesi corruttiva contestata”.

La Corte ha, viceversa, accolto un secondo motivo di ricorso, relativo alla statuizione sulla sospensione condizionale della pena.

Sul punto, si è anzitutto ricordato che “con la legge 27 maggio 2015, n. 69, nel corpo dell’art. 165 cod. pen., è stato inserito il comma quarto, con cui si è expressis verbis subordinata la concessione della sospensione condizionale nei confronti di chi sia condannato per i reati ivi previsti di cui agli artt. 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320 e 322-bis cod. pen. ‘al pagamento di una somma equivalente al profitto del reato ovvero all’ammontare di quanto indebitamente percepito dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta”.

In merito a tale disposizione la Corte ha rilevato che “stante il mancato richiamo all’art. 321 cod. pen., la previsione del quarto comma dell’art. 165 cod. pen. non è applicabile al privato corruttore nei casi di corruzione per l’esercizio della funzione, propria ed in atti giudiziari”.

Medesima impostazione è seguita dal “disposto dell’art. 444, comma 1-ter, cod. proc. pen, là dove subordina l’ammissibilità dell’applicazione della pena su richiesta alla ‘restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato’ per coloro i quali siano imputati dei delitti di cui agli artt. 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 322-bis cod. pen., ancora una volta non menzionando fra le incriminazioni in relazione alle quali vale tale condizione quella di cui all’art. 321 cod. pen., escludendo dunque dall’ambito di applicabilità della condizione de qua il corruttore”. 

Solo di recente, “con la legge 9 gennaio 2019, n. 3 (c.d. Spazzacorrotti), il legislatore ha espressamente introdotto il riferimento all’art. 321 cod. pen. in diverse norme del codice penale e di procedura penale – fra cui appunto l’art. 165, comma quarto, cod. pen. e l’art. 444, comma 3-bis, cod. proc. pen.”, con ciò offrendo una “testuale e luminosa conferma del fatto che detta disposizione non fosse in precedenza ricompresa nell’alveo delle suddette previsioni”.

Ritenuta la irretroattività di quest’ultimo intervento normativo e preso atto che il fatto contestato era stato commesso in tempi ad esso precedenti, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata con limitato riguardo alla statuizione concernente la subordinazione del beneficio al pagamento della somma su indicata, con conseguente eliminazione di tale condizione.

Redazione Giurisprudenza Penale

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