ARTICOLIDIRITTO PENALE

La Cassazione sulla applicazione della norma sulle pene accessorie per fatti di bancarotta fraudolenta in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale.

[a cura di Lorenzo Roccatagliata]

Cass. pen., Sez. V, Sent. 2 novembre 2020 (ud. 7 ottobre 2020), n. 30442
Presidente Zaza, Relatore Belmonte

Con la sentenza in epigrafe, la Corte di cassazione, Sezione quinta, si è pronunciata in tema di pene accessorie per il reato di bancarotta fraudolenza, ex art. 216, comma 3, Legge fallimentare, in seguito alle recenti sentenze, intervenute sulla materia, della Corte Costituzionale (n. 222/2018) e della Corte di cassazione a Sezioni Unite (n. 28910/2019) [in merito a queste due pronunce, si veda l’analisi di Federica Barbero].

Giova premettere che con la citata sentenza del 2018 la Consulta ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 216, comma 3, L.f., nella parte in cui dispone: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni la inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”, anziché “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa la inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni”.

Nel caso di specie il Supremo Collegio ha rilevato d’ufficio la illegalità delle pene accessorie irrogate dal Giudice territoriale con sentenza del giugno 2018 – dunque, precedente alla citata declaratoria di incostituzionalità – per fatti di bancarotta distrattiva e documentale commesse dai ricorrenti nella loro qualità di amministratori di una Srl.

Sul punto, ha precisato la Corte, “la sostituzione della cornice edittale operata dalla citata pronuncia, determina la illegalità delle pene accessorie irrogate in base al criterio dichiarato illegittimo, indipendentemente dal fatto che quelle concretamente applicate rientrino comunque nel ‘nuovo’ parametro, posto che il procedimento di commisurazione si è basato su una norma dichiarata incostituzionale”.

Nel solco della propria, più autorevole giurisprudenza (Sez. Un. n. 33040/2015, Jazouli), la Corte ha ritenuto che “deve escludersi che possa essere conservata, in quanto legittima, sotto il profilo del principio costituzionale di proporzione tra offesa e pena, la pena determinata in relazione ad una cornice edittale prevista da una norma dichiarata incostituzionale e, quindi, inesistente sin dalla sua origine”. 

Sulla base di tali principi, la Corte ha statuito che “l’illegalità sopravvenuta della previsione della durata delle pene accessorie impone l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata in punto di trattamento sanzionatorio, al fine di consentire al giudice di merito di stabilire la durata delle pene accessorie; giudizio che implicando valutazioni discrezionali, è sottratto al giudice di legittimità. Nella necessità di dovere individuare un criterio al quale il giudice del rinvio dovrà attenersi nella rideterminazione della durata della pena accessoria, non più fissa, ma indicata solo nel massimo, si osserva che, le Sezioni Unite, successive alla predetta declaratoria di incostituzionalità, hanno affermato che le pene accessorie previste dall’art. 216 legge fallimentare, nel testo riformulato dalla sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018 della Corte Costituzionale, così come le altre pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di sui all’art. 133 cod. pen. (Sez. Un. n. 28910 del 2019)”.

Redazione Giurisprudenza Penale

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