La Cassazione sulla configurabilità in capo al socio del reato di sottrazione fraudolenza al pagamento di imposte dovute dalla società.
[a cura di Lorenzo Roccatagliata]
Cass. pen., Sez. III, Sent. 4 novembre 2020 (ud. 1 ottobre 2020), n. 30723
Presidente Marini, Relatore Corbetta
Con la sentenza in epigrafe, la Sezione terza della Corte di cassazione si è pronunciata in materia di diritto penale tributario, con specifico riferimento ad una ipotesi di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente fondata sulla contestazione del reato ex art. 11, comma 1, d. lgs. n. 74/2000 (sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte), elevata all’indagato, nella sua qualità di socio, poi di amministratore e infine di liquidatore di una Srl.
Più in dettaglio, si contestava che, a fronte dell’omesso versamento IVA da parte della società in relazione agli anni di imposta dal 2010 al 2016, per un importo complessivo poco inferiore a euro 150 mila (omissione di per sé penalmente irrilevante, in quanto sotto soglia), l’indagato avesse simulatamente ceduto alla madre un proprio bene immobile personale, acquistato iure hereditario, proprio al fine di sottrarsi al pagamento di dette somme dovute dalla società.
La Corte ha annullato l’ordinanza del Tribunale del riesame, che aveva a sua volta rigettato l’istanza proposta dal ricorrente.
Anzitutto, per la configurazione del reato in questione, ha rilevato la Corte, è “sufficiente che l’azione sia idonea a rendere inefficace l’esecuzione esattoriale, configurandosi dunque l’illecito penale in termini di reato di pericolo concreto (…), integrato dal compimento di atti simulati o fraudolenti volti a occultare i propri o altrui beni, idonei – secondo un giudizio ex ante che valuti la sufficienza della consistenza patrimoniale del contribuente rispetto alla pretesa dell’Erario – a pregiudicare l’attività recuperatoria dell’amministrazione finanziaria (…). Ciò evidentemente significa che il bene, oggetto degli atti simulati o fraudolenti, deve essere riconducibile al patrimonio del soggetto debitore verso l’Erario, perché solo in questo caso il compimento dell’atto può rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”.
Ha inoltre osservato il Supremo Collegio, che “il reato in esame è connotato dal dolo specifico, che ricorre quando l’alienazione simulata o il compimento di altri atti fraudolenti, idonei a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva, siano finalizzati alla sottrazione “al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrativi relativi a dette imposte” (…). Il dolo specifico, pertanto, presuppone logicamente la sussistenza di una pretesa creditoria da parte dell’Erario, dovendo l’azione posta in essere dall’agente orientata verso il conseguimento di quel fine, che evidentemente non è configurabile ove manchi un debito verso il fisco”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha ritenuto che il Giudice della cautela “avrebbe dovuto esplicitare i presupposti, giuridici e di fatto, in forza dei quali, nei confronti del ricorrente, sia configurabile – e in che misura – una responsabilità per il debito tributario della società di cui è stato socio, legale rappresentante e liquidatore, e, conseguentemente, se fosse azionabile a [suo] carico (…) una procedura di riscossione coattiva: accertamento indispensabile perché si sia in presenza di una vendita simulata di un bene del debitore (…) che possa rendere in tutto o in parte inefficace, nei suoi confronti, la procedura di riscossione coattiva da parte dell’Erario”.