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Caso Vannini: depositate le motivazioni della Corte di Assise di Appello di Roma nel processo di appello-bis

[a cura di Guido Stampanoni Bassi]

Corte di Assise di Appello di Roma, Sez. II, 29 ottobre 2020 (ud. 30 settembre 2020), n. 22
Presidente Dott. Gianfranco Garofalo, Consigliere Dott. Silverio Tafuro

1. Segnaliamo, in considerazione dell’interesse mediatico della vicenda – relativa all’omicidio di Marco Vannini avvenuto a Ladispoli il 18 maggio 2015 – la sentenza con cui la Corte di Assise di Appello di Roma, giudicando in sede di rinvio a seguito della pronuncia della Corte di Cassazione, ha qualificato la condotta contestata all’imputato Antonio Ciontoli nei termini di omicidio volontario nella forma del dolo eventuale e ha riconosciuto la responsabilità degli altri imputati (Federico Ciontoli, Martina Ciontoli e Maria Pezzillo) ai sensi dell’art. 116 c.p. (cd. “concorso anomalo“).

2. In punto di fatto, la Corte, dopo aver ricostruito la vicenda, ha affermato che «la scelta di un comportamento di un certo tipo fu del capo famiglia, e cioè Antonio Ciontoli, al quale tutti aderirono consapevolmente, pur non potendosi non rendere conto delle conseguenze che avrebbe avuto lo stesso, accettandone il rischio e le conseguenze e avendo il tempo (110 minuti) per concordare una versione da fornire coralmente agli investigatori e che vedeva come primo obiettivo la possibilità: a) di far passare sotto silenzio l’accaduto; b) far credere ad un incidente non voluto; c) in ultima analisi, pervenire ad una ipotesi di omicidio colposo».

Tale conclusione – si legge nella sentenza – risulta ricavabile da una serie di circostanze, quali «le spiegazioni inverosimili degli atteggiamenti assunti dagli imputati, che in taluni momenti rasentano una vera e propria crudeltà nei confronti di un ragazzo ferito che urla di dolore e viene rimproverato per questo motivo (un ragazzo che è stato ed è il fidanzato di Martina e che il Ciontoli afferma di tenere in considerazione come un figlio, i depistaggi (pulizia delle superfici delle pistole e del bossolo e pulitura delle tracce di sangue, soprattutto nel luogo dove asseritamente era avvenuto il ferimento), le ripetute menzogne rivolte per circa 110 minuti ai soccorritori sia prima del loro intervento che dopo e l’accordo che tentano di raggiungere tra loro su quanto dichiarare».

D’altronde – prosegue la sentenza – «l’ipotesi diversa non regge sia per il grado di istruzione dei soggetti coinvolti sia perché basta aver riguardo alle tabelle utilizzate dall’INAIL per la valutazione del danno fisico a seguito di rumori per scoprire che il colpo di arma da fuoco è pari a 110 decibel (non per niente al poligono di tiro, anche all’aperto, occorre indossare le cuffie di protezione) ed è classificato come secondo rumore maggiormente invasivo dopo quello del martello pneumatico che ha un valore di 150 decibel. Per intenderci, la conversazione normale tra soggetti nella stessa casa produce un rumore di valore 40/50 decibel, mentre se le persone si urlano contro il valore può arrivare a 70 decibel. Ed allora, è da chiedersi come sia possibile che il rumore prodotto da un colpo di arma da fuoco cal.9 mm, soprattutto in un ambiente ristretto come è quello del bagno di casa Ciontoli, e simile certamente ad un esplosione (percepita anche dai vicini di casa), venga da tutti colto come “un tonfo”, come il rumore di un oggetto che cade e come, soprattutto, una volta sentita l’esplosione, accertato che Marco risulta ferito e viste le pistole in bagno, qualcuno di media intelligenza possa credere alla versione del “colpo d’aria” propinata a dire di tutti da Antonio Ciontoli; “colpo di aria” che però diventa poi un buco procuratosi con un pettine a punta! Se uno ha voglia di fare una ricerca su internet, inserendo le parole “colpo d’aria” si ottiene come risultato quello di un modo profano per descrivere una infreddatura dovuta all’esposizione ad agenti atmosferici nocivi».

3. In diritto – per quanto riguarda la posizione di Antonio Ciontoli – la Corte ha ritenuto «non logicamente supportato l’assunto secondo cui, se il Ciontoli avesse avuto certezza della verificazione dell’evento, si sarebbe certamente astenuto dalla condotta illecita, essendovi secondo la Corte di Appello una relazione di sostanziale incompatibilità tra il fine di evitare conseguenze pregiudizievoli in ambito lavorativo e la morte di Marco Vannini, perché è vero che anche nell’ipotesi in cui la verificazione dell’evento collaterale rappresenti il fallimento del piano non può escludersi che l’agente abbia effettuato una opzione consapevole accettando in ogni caso la verificazione dell’evento».

Ne è derivata la «certa responsabilità di Antonio Ciontoli per il reato di omicidio volontario sotto il profilo del dolo eventuale in danno di Marco Vannini così come contestato nell’originaria imputazione, ferma restando l’entità della pena inflitta e cioè anni quattordici di reclusione, essendo il primo giudice partito da una pena base di anni ventuno, in considerazione dell’esistenza del dolo eventuale, diminuita di un terzo per effetto delle concesse attenuanti generiche di cui all’art.62bis c.p., dovendosi in tal senso confermare la sentenza di primo grado impugnata anche in punto di pene accessorie e di condanna al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite».

Quanto alla posizione degli altri imputati, la Corte, in riforma della sentenza impugnata, ha ritenuto di «affermare la responsabilità di Federico Ciontoli, Martina Ciontoli e Maria Pezzillo per concorso nel reato di omicidio volontario, sotto il profilo del dolo eventuale, così come configurato dalla disciplina dell’art.116 c.p., e richiesto dal P.G. in via subordinata, sotto il profilo del c.d. concorso anomalo», ossia quella «peculiare fattispecie contemplata e disciplinata dall’art. 116 c.p. (così come reinterpretata a seguito della lettura costituzionalmente orientata della norma operata dalla Consulta con la sentenza n. 42 del 13 maggio 1965) a mente del quale qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti anche questi ne risponde se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione; se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave».

L’art. 116 c.p. – si legge nella sentenza – «descrive e disciplina con la punibilità del correo nolente a titolo, per l’appunto, di concorso doloso anomalo, un caso molto frequente nella pratica e, cioè, quello che taluno dei correi commetta un fatto di reato distinto rispetto a quello originariamente programmato e che tale distinto fatto di reato sia, in ogni caso, sotto il profilo della causalità, riconducibile anche al contributo offerto da altro concorrente che non abbia, tuttavia, la volontà di realizzare il fatto di reato commesso autonomamente dal correo (si pensi al caso in cui, programmato il furto nell’appartamento, uno dei correi si renda responsabile anche del reato di violenza sessuale nei confronti della giovane donna trovata all’interno dell’appartamento). La responsabilità del correo nolente, sulla base dell’art. 116 c.p., è affermata sulla sola scorta del nesso di causalità, sicché, nell’esempio precedente, sarebbe sufficiente ad inferirne la responsabilità dolosa per il delitto di violenza sessuale l’avere, ad esempio, assunto il ruolo di “palo” dinanzi all’abitazione».

Orbene – conclude la Corte – «sebbene tutti i familiari si siano potuti rendere conto della gravità della ferita inferta a Marco Vannini e delle sue sempre più gravi condizioni di salute, la figura autoritaria di Antonio Ciontoli, il suo carisma e le continue rassicurazioni rivolte ai propri familiari unitamente alla diversità di età ed esperienze della moglie e dei due figli rispetto a quelle del marito e padre – militare di carriera e addetto ai servizi di sicurezza del servizio segreto – il diverso ruolo svolto dai singoli familiari compartecipanti non consentono di ravvisare senza dubbio alcuno l’elemento del dolo anche eventuale con riferimento all’evento morte del Vannini, che Ciontoli Antonio si è certamente rappresentato accettandolo, essendo, invece, assolutamente certa, alla luce di tutti gli elementi raffigurati a loro carico, una accettazione da parte di detti familiari di un evento meno grave e diverso da quello ravvisato ed accettato da Ciontoli Antonio, cioè quello delle lesioni anche gravi in danno del Vannini». Una sicura riprova che «l’evento morte non fosse stato ipotizzato, e quindi, accettato dai familiari di Antonio Ciontoli come conseguenza della grave lesione subita da Marco Vannini è contenuta proprio nelle famose intercettazioni ambientali del 18 maggio 2015 laddove sia Martina che Federico affermano che nessuno di essi avrebbe mai potuto prevedere che Marco sarebbe morto pur evidenziando la situazione grave in cui versava il giovane a causa della ferita e nulla riferendo circa i motivi di non avere proceduto alla richiesta di un intervento sollecito e mirato dei soccorsi».

4. Per un approfondimento sulla sentenza della Cassazione, rinviamo all’articolo di M. Bianchi, Il fatto crea il precetto? Alcune considerazioni “a prima lettura” sulla sentenza Vannini/Ciontoli,  in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 4.

Redazione Giurisprudenza Penale

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