Alla Corte Costituzionale la questione sulla legittimità dell’art. 317 bis c.p., ante l. 3/2019, nella parte in cui prevede l’automatica applicazione dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici in caso di condanna per il reato di cui all’art. 319 c.p.
in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 1 – ISSN 2499-846X
Cassazione Penale, Sezione VI, ordinanza 30 dicembre 2020, n. 37796
Presidente Fidelbo, Relatore Giordano
Con ordinanza del 30 dicembre 2020, in tema di pene accessorie previste per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, la Sesta Sezione ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 317-bis cod. pen., nella versione precedente alle modifiche introdotte con la legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui prevede l’automatica applicazione dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici in caso di condanna, per il reato di cui all’art. 319 cod. pen., ad una pena uguale o superiore a tre anni di reclusione.
La Suprema Corte, rimettendo la questione alla Consulta, ha ripercorso quanto recentemente affermato dalla giurisprudenza sia costituzionale che di legittimità in tema di principi regolatori delle pene.[1] In particolare, il passaggio risolutivo, fatto proprio dalla Sezione rimettente, consiste nella progressiva equiparazione fra la disciplina prevista per le pene principali a quella delle pene accessorie, sebbene il contenuto afflittivo dell’interdizione sia contrassegnato da una funzione marcatamente orientata alla prevenzione speciale negativa.
Sul punto occorre ricordare che sino alla legge n. 19/1990, in cui si estendeva la sospensione condizionale alle pene accessorie, si riteneva che i caratteri essenziali di esse fossero la complementarietà, l’indefettibilità ed automaticità della loro irrogazione in conseguenza della condanna, in virtù dell’art. 20 c.p., a tenore del quale: “le pene principali sono inflitte dal giudice con la sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa”. Tuttavia, in seguito all’emanazione della legge del ‘90 ed ai successivi approdi giurisprudenziali, particolarmente sensibili alla personalizzazione della pena, appare incontrovertibile che non si possa più considerare la pena accessoria quale mera sanzione ancillare, necessaria e indefettibile di quella principale, la cui determinazione prescinda da un’ulteriore valutazione discrezionale del giudice in ordine, quantomeno, alla sua durata.
La discrezionalità giudiziaria svolge invero un ruolo centrale nell’ambito del sistema punitivo delineato dalla Carta fondamentale, ruolo che costituisce diretta attuazione dei principi di proporzionalità ed individualizzazione del trattamento sanzionatorio calibrato sul singolo condannato. La considerazione, accanto all’art. 3 Cost., del principio di personalità della responsabilità penale sancito dall’art. 27 Cost., comma 1 – da leggersi anch’esso alla luce della necessaria funzione rieducativa della pena di cui al cit. art. 27 Cost., comma 3 – è inoltre alla base dell’ulteriore canone della necessaria individualizzazione della pena. Tale canone esige che – nel passaggio dalla comminatoria astratta operata dal legislatore alla sua concreta inflizione da parte del giudice – la pena si atteggi come risposta proporzionata anche alla concreta gravità, oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato; il che comporta, almeno di regola, la necessità dell’attribuzione al giudice di un potere discrezionale nella determinazione della pena nel caso concreto, entro un minimo e un massimo predeterminati dal legislatore.[2]
La questione si è posta storicamente rispetto al sistema delle pene accessorie “fisse” nella bancarotta fraudolenta, in cui alla condanna conseguono obbligatoriamente per dieci anni (in misura quindi assai maggiore rispetto alla pena in concreto irrogata) l’interdizione all’esercizio dell’impresa, in proprio o ricoprendovi uffici direttivi (art. 216 u.c. r.d. 267/42).
In un primo momento la Corte Costituzionale, con sentenza 134/2012, aveva dichiarato infondata la questione: ciò poiché il giudice remittente aveva formulato il quesito richiedendo una pronuncia additiva che sostituisse la locuzione dell’art. 223 l. fall. “per dieci anni” con “fino a dieci anni”, soluzione non costituzionalmente obbligata e quindi inammissibile. In quella sede, tuttavia, la Corte sollecitava il legislatore ad intervenire sulle previsioni di pena “fisse”. Ma, in considerazione dell’inerzia del legislatore, la questione veniva nuovamente sollevata e definitivamente accolta dalla Consulta, con la sentenza 222/2018, successivamente seguita dalle Sezioni Unite Suraci del 2019, in cui è stato ribadito il principio secondo cui la determinazione dell’an, del quomodo e del quantum della pena accessoria deve esser affidata alla discrezionalità del giudice, il quale dovrà determinare la pena accessoria in base ai criteri di cui all’ art. 133 c.p. e non rapportala, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 c.p., poiché una tale opzione finirebbe per sostituire un diverso automatismo a quello legale, che è stato ritenuto costituzionalmente illegittimo in quanto teso a prevedere una pena fissa insuscettibile di risultare proporzionata rispetto all’intera gamma dei comportamenti tipizzati dalla norma.[3]
L’enunciazione del principio in parola ha ristretto sensibilmente l’applicazione del citato art. 37 (che la giurisprudenza dominante applicava in ogni caso di sanzione accessoria temporanea non determinata in misura fissa), con conseguente neutralizzazione di un automatismo sanzionatorio mediante adozione di un’interpretazione correttiva, tale da escludere che le pene accessorie quantificate, delineando un’apposita cornice edittale, possano ritenersi “non determinate dalla legge” ai sensi dell’art. 37 c.p.
Ciò premesso, mutatis mutandis, posto che l’unica soluzione conforme al dettato costituzionale, come visto, attribuisce al giudice il potere-dovere di determinare in concreto il quantum punitivo anche con riguardo alle pene accessorie, risulta ragionevole prevedere che la Corte Costituzionale, sulla scorta dei sui stessi precedenti, censurerà la previsione dell’art. 317-bis c.p. che commina, in relazione ad alcune fattispecie di reato contro la pubblica amministrazione per cui sia stata inflitta in concreto la pena eguale o superiore ad anni tre di reclusione, l’automatica interdizione in perpetuo dai pubblici uffici; ciò in ragione del fatto che una simil previsione “anelastica” ovvero “rigida” non consente di calibrare la sanzione sulla gravità della violazione commessa, concretando inevitabilmente sanzioni “manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto al concreto disvalore del fatto di reato, tanto da vanificare lo stesso obiettivo di “rieducazione del reo”, imposto dall’art. 27 Cost., comma 3”.
[1] Corte Cost., n. 222 del 5/12/2018; Corte Cost., n. 112 del 06/03/2019; Sez. Un., n. 28910 del 28/02/2019, Suraci.
[2] Corte Cost., n. 112, cit.
[3] Sez. Un., n. 28910, cit.: in applicazione di tale principio, avallato dall’ordinanza de quo, la Corte annullava con rinvio la sentenza che aveva irrogato agli imputati le pene accessorie conseguenti al reato di bancarotta fraudolenta per il periodo fisso di dieci anni.
Come citare il contributo in una bibliografia:
M. Zaniolo, Alla Corte Costituzionale la questione sulla legittimità dell’art. 317 bis c.p.¸ ante l. 3/2019, nella parte in cui prevede l’automatica applicazione dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici in caso di condanna per il reato di cui all’art. 319 c.p., in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 1