È online il quarto fascicolo di Giurisprudenza Penale Trimestrale.
a cura di Lorenzo Roccatagliata
Pubblichiamo di seguito il fascicolo n. 4, 2020 di Giurisprudenza Penale Trimestrale.
Il fascicolo si trova anche nella sezione della Rivista dedicata all’edizione trimestrale. Per accedervi, clicca qui.
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Due eredità dell’anno della pandemia: la modifica dell’abuso di ufficio e la riforma delle intercettazioni.
1. Il 2020 sarà certamente ricordato come l’anno della più grave pandemia dei tempi moderni.
Malgrado fosse un evento non proprio inatteso, tutti i Paesi del mondo si sono fatti trovare impreparati ed hanno dovuto improvvisare le risposte, per parare un problema sanitario manifestatosi come gravissimo.
Le soluzioni messe in campo dai singoli Stati non sono state affatto omogenee ma può individuarsi, comunque, un minimo comune denominatore nell’emanazione, ovunque, di regole speciali ora destinate a vietare comportanti ritenuti idonei a far propagare il virus, ora finalizzate a rendere più efficace la lotta a questo male.
La pandemia ha, quindi, generato sostanzialmente in tutti gli Stati – oltre che morti, restrizioni delle libertà personali, il risorgere di paure ataviche e dimenticate – anche un diritto emergenziale.
L’Italia, ovviamente, non è stata da meno; si potrebbe dire, anzi, rispetto agli altri Paesi, che quello che è avvenuto con il Covid ha replicato, sia pure in scala maggiore, ciò che rappresenta quasi la regola per noi, affrontare cioè i problemi, contingenti o meno che siano, con un approccio emergenziale.
La produzione giuridica nazionale collegata all’evento è stata, fra l’altro, alluvionale; provvedimenti normativi del Governo (i famosi dPCM), del Parlamento, delle Regioni, dei Comuni si sono susseguiti (e ancora oggi si susseguono) con ritmi forsennati, creando nei cittadini una continua sensazione di incertezza.
È fin troppo semplice azzardare la previsione secondo cui il diritto dell’emergenza pandemica darà certamente tanto lavoro ai giuristi, sia teorici che pratici, per i prossimi anni ed in tutti gli ambiti; non c’è, infatti, settore del diritto che non è stato direttamente o indirettamente interessato dallo tsunami normativo.
Limitando l’attenzione al diritto penale, si è assistito, in primo luogo, alla creazione di un vero e proprio sottosistema punitivo speciale.
L’opzione originaria, della primissima fase della pandemia, per una sanzione penale già prevista dal codice penale (la contravvenzione di cui all’art. 650 c.p.), è stata, infatti, soppiantata da un apparato di pene pecuniarie, di importo significativo e di natura formalmente amministrativa (che rinvia in gran parte all’impianto della legge n. 689/81), per le violazioni delle disposizioni che impongono restrizioni alla libertà di movimento, accompagnato, però, da sanzioni criminali in presenza di fatti ritenuti di maggiore gravità (ad esempio, la violazione della cd. quarantena sanitaria e/o fiduciaria).
Si sono poi anche introdotte fattispecie delittuose ad hoc per garantire la regolare erogazione e fruizione dei benefici concessi dallo Stato alle categorie di lavoratori svantaggiati dal virus.
Sul piano processuale, invece, è stata approntata una regolamentazione temporanea ed eccezionale per consentire comunque lo svolgersi, più o meno ordinato, dei processi penali. Lo si è fatto da un lato provando ad anticipare l’entrata in vigore di alcune disposizioni che avrebbero dovuto rappresentare l’ossatura del mai decollato processo penale cd. telematico, dall’altro costruendo riti speciali in cui la presenza personale delle parti è sostituita da quella virtuale, attraverso collegamenti a distanza, o consentendo procedure, pure sperimentate dinanzi ai giudici civili o amministrativi, con un contraddittorio puramente cartolare.
2. Non è su questi argomenti, però, che ci si intende soffermare sia pure brevemente in questo editoriale che chiude le pubblicazioni della rivista dell’anno 2020 ma guarda inevitabilmente al 2021; quello sopra brevemente descritto è, infatti, un flusso normativo che non si è ancora arrestato e che continua ad evolversi.
Le disposizioni processuali previste, ad esempio, per la prima fase della pandemia (d.l. n. 34/2020) sono state prima modificate dal decreto legge cd ristori (d.l. n. 137/2020) e poi successivamente hanno subito ulteriori e significative variazioni grazie al decreto legge cd ristori bis (d.l. n. 149/2020), per trovare un minimo di (provvisoria?) stabilizzazione, essendo state tutte convogliate nella legge di conversione del primo decreto “ristori” (l. n. 176/2020).
E non è da escludersi che sia l’impianto sanzionatorio approntato che le regole processuali possano ancora subire cambiamenti, atteso che la propagazione del virus non si è affatto bloccata.
Un giudizio, ovviamente provvisorio e superficiale, non potrebbe che essere caratterizzato da chiaroscuri.
Sostanzialmente positiva è la valutazione della scelta di sanzioni amministrative per le violazioni più frequenti; l’opzione di una sanzione penale per qualsivoglia tipo di infrazione avrebbe, per l’ennesima volta, finito per scaricare sulla già malandata giustizia penale la soluzione dei problemi (comunque) di sicurezza ed ordine pubblico, anche se la modalità prescelta rende altrettanto probabile un pesante fardello che inciderà comunque sui giudici civili, soprattutto onorari.
Criticabile, invece, la tecnica utilizzata per la scrittura di alcune delle nuove fattispecie delittuose (ad esempio, il falso previsto dall’art. 25, comma 9, d.l. n. 34/2020) che, per la scarsa comprensibilità, appaiono entrare in chiara tensione con il principio di tassatività.
Forse inevitabili le opzioni sul piano processuale; a meno di non voler sospendere sine die la celebrazione delle attività sia di indagini che processuali vere e proprie era necessario ridurre i rischi connessi alla presenza personale delle parti processuali; le scelte adottate sono apparse, quindi, sostanzialmente equilibrate e comunque non contrastanti con i principi costituzionali di immediatezza ed oralità.
C’è anzi da augurarsi che alcune delle novità introdotte – ad esempio, quelle in materia di deposito telematico degli atti o di possibilità di effettuare atti istruttori da parte del p.m. attraverso strumenti telematici – possano diventare regole anche del processo ordinario della post pandemia.
Di seguito, invece, ci si soffermerà su due novità “di sistema” introdotte nel 2020, non strettamente collegate all’evento pandemico (ma neanche, come si dirà, del tutto avulse da esso) ed anzi attese da tempo e sulle quali si sta anche avviando, sia pure lentamente, un vivace dibattito, di cui anche la presente rivista è fervida testimone.
Mi riferisco alle riforme dell’abuso di ufficio e delle intercettazioni, sulle quali si proverà di seguito oltre che a proporre qualche rapida considerazione anche ad individuare le possibili ricadute sul piano pratico, alla luce pure delle esperienze maturate in questi primi mesi dalla loro approvazione.
3. Come si è in parte già accennato, della modifica dell’abuso di ufficio si discuteva da anni ed in varie sedi; erano, infatti, state istituite commissioni di studio da università, enti di ricerca ed associazioni private ma anche presentati, in parlamento, plurimi disegni di legge e svolte audizioni di “esperti”.
Il testo in passato vigente, come è noto frutto di una profonda riscrittura avvenuta nel 1997 dopo una prima riforma del 1990, era, infatti, destinatario di tantissime critiche.
La più ricorrente (e quella anche di maggior successo mediatico) si concentrava soprattutto sulle conseguenze dell’interpretazione di essa proposta dalla ormai consolidata giurisprudenza.
Avendo quest’ultima ritenuto che fra le norme di legge o regolamento, la cui violazione costituiva uno dei presupposti del reato, potessero rientrare anche disposizioni non con contenuto esplicitamente precettivo ma di carattere più generale (quale, ad esempio, il principio costituzionale di imparzialità, di cui all’art. 97), si rimarcava come, in tal modo, divenisse possibile per il giudice penale il sindacato della discrezionalità amministrativa.
I decisori pubblici – aggiungevano i critici – erano, di conseguenza, esposti al continuo rischio di incriminazioni, in quanto le loro scelte potevano essere considerate illegittime (in quanto, ad esempio, “non imparziali”) e quindi penalmente rilevanti.
Questa situazione si considerava la causa principale di quel fenomeno definito, anche nel linguaggio giornalistico, come “fuga dalla firma”; il timore dell’intervento penale spingeva cioè i burocrati alla cautela e di fatto paralizzava l’azione amministrativa, danneggiando, infine, cittadini ed imprese.
Il cahier de doléance tipico si completava rimarcando lo iato esistente fra azioni penali avviate e condanne definitive in materia; fra archiviazioni, assoluzioni in primo grado ed in appello, la percentuale dei casi che giungeva ad una affermazione di responsabilità era molto ridotta, ma intanto lo strepitus fori aveva prodotto già il danno per il funzionario interessato e di conseguenza per l’azione amministrativa.
Sarebbe oggi inutile provare a confutare, almeno in parte, le affermazioni sopra riportate, dimostrando, anche con solidi argomenti, che esistevano (e persistono) ulteriori e ben più pregnanti cause della effettivamente esistente “fuga dalla firma”, quale, ad esempio, il disordine normativo, le stratificazioni di fonti eterogenee, la confusione di ruoli nella burocrazia, la scarsa meritocrazia esistente nell’amministrazione etc.; quelle affermazioni erano, infatti, diventate, attraverso il mainstream, assiomi indiscutibili.
Malgrado l’argomentare indicato avesse ormai una indiscussa presa sia fra i media sia nel mondo politico non si era riusciti ad intervenire sull’art. 323 del codice penale, con modifiche anche di minimo impatto; ciò era avvenuto perché, nella società civile ma anche in parlamento, aveva fatto argine uno “zoccolo duro giustizialista” che paventava il rischio che, attraverso la modifica della disposizione, si riducessero gli ambiti del controllo di legalità sull’amministrazione pubblica e si finisse per favorire la corruzione.
Il paradosso è che ciò che non era riuscito ai tanti (e, in molti casi, commendevoli) sforzi di intellettuali e studiosi, oltre che di esponenti politici e di lobbisti (intendendo questa parola senza alcuna accezione negativa), è divenuto possibile “grazie” al Covid.
In un decreto legge destinato, infatti, a rilanciare l’economia del Paese, attraverso la solita e logora ricetta della “riduzione dei lacci burocratici” (d.l. n. 76/2020, chiamato significativamente semplificazioni), quasi di soppiatto, si è introdotta una profonda revisione della fattispecie penale, poi ratificata, pari pari, senza opposizione alcuna, da entrambi i rami del parlamento.
Lo si è fatto attraverso un innesto ortopedico nella norma vigente; la condotta tipica, strutturata su un doppio presupposto (la violazione di legge o regolamento e sull’inosservanza dell’obbligo di astensione), mantiene formalmente l’identico impianto, ma il primo dei due presupposti si trasforma oggi radicalmente nella violazione di “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuano margini di discrezionalità”.
In tal modo, nell’intenzione del riformatore, si sarebbe impedito per il futuro qualunque incursione del giudice penale sulla (sacra ed intoccabile) discrezionalità dell’amministrazione.
Quello che agli ottimisti potrebbe apparire uno dei pochissimi effetti positivi del virus, a ben vedere, non è, però, in nessun modo tale.
La migliore dottrina (Tullio Padovani, Vita morte e miracoli dell’abuso di ufficio, in questa Rivista) ha marchiato la nuova disposizione come un “ircocervo dalle fattezze mostruose”.
La fattispecie riscritta, infatti, da un lato ha sostanzialmente dato luogo ad una abrogazione della sua parte più applicata in passato (la norma vigente, sempre secondo Padovani, si attaglierà soltanto ad “una improbabile minutaglia” di casi, quelli in cui la legge predetermina il se, il cosa, ed il come dell’azione amministrativa), dall’altro ha lasciato inalterata, in modo irrazionale e persino forse in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza, quell’altra parte della condotta (l’inosservanza dell’obbligo di astensione) che pure si riferisce indiscutibilmente ad attività amministrative tipicamente discrezionali.
Non può essere questa la sede per un esame approfondito dell’infelice espressione “specifiche regole di condotta”, mentre si possono già osservare alcune delle ricadute concrete della novità.
Diventano lecite azioni di amministratori, frutto di scelte discrezionali, anche se poste con l’obiettivo, nemmeno più celato, di favorire qualcuno (lo ricorda Padovani, ipotizzando il caso dell’amministratore locale che adotta un atto discrezionale, finalizzato platealmente ad agevolare i suoi sostenitori politici) e, in base all’art. 2 del c.p., il principio della retroattività favorevole comporterà quindi l’inevitabile caducazione di gran parte delle imputazioni di abuso di ufficio del passato, alcune giunte anche alla soglia dell’irrevocabilità.
D’altro canto, è, però, probabile che una modifica cosi parziale e limitata, avulsa da qualsiasi intervento di sistema, possa determinare nell’interpretazione giurisprudenziale, anche per l’esigenza di evitare “vuoti di tutela”, un effetto di “rimbalzo” su altre fattispecie rimaste intonse; ci si riferisce al possibile ritorno in scena del ritenuto superato peculato per distrazione o alla possibilità di leggere in modo più ampio l’omissione di atti di ufficio o queste stesse parti dell’art. 323 c.p. sopravvissute all’emenda.
Conseguenze del genere sono state già paventate dalla dottrina più avvertita e si intravvedono anche in qualche prima decisione della Cassazione, come quella che ha, ad esempio, fatto rientrare nella violazione di legge da cui non residuano margini di discrezionalità il mancato rispetto degli strumenti urbanistici, in quanto gli obblighi da essi posti derivano (indirettamente) dal d.P.R. n. 380/01 (cfr. Cass. Sez. VI n. 31873/2020, ripresa da questa Rivista più oltre).
Resta, invece, solo formalmente sospesa la risposta più attesa dall’ambizioso legislatore e cioè se davvero la novità introdotta nell’anno della pandemia relegherà ad un lontano ricordo la “fuga dalla firma”; non credo, però, che qualcuno accetterà scommesse sul punto, apparendo l’esito (purtroppo) scontato!
4. Il 2020 è stato anche l’anno dell’entrata in vigore di una controversa e particolarmente discussa riforma delle intercettazioni.
Approvata nel 2017 (d.lgs n. 216 del 2017), a seguito di una legge delega oggetto di lungo dibattito parlamentare, per adeguarsi alle prescrizioni del Garante della Privacy del 2013, intendeva perseguire l’obiettivo di garantire una maggiore tutela della riservatezza dei soggetti a qualunque titolo coinvolti nelle attività di ascolto giudiziarie.
Il provvedimento legislativo, pur frutto di una lunga mediazione, era stato però accolto in modo critico da alcuni settori anche della magistratura che ne avevano rimarcato l’eccesso di adempimenti richiesti ed il conseguente possibile impatto negativo sull’efficienza delle indagini.
Con uno dei primi provvedimenti del governo insediatosi all’inizio dell’attuale legislatura era stata, quindi, rinviata la sua entrata in vigore e il termine è stato, poi, ulteriormente spostato in avanti, finché, con un decreto legge della fine del 2019 (d.l. n. 161 del 2019, conv. in l. n. 7 del 2020), il testo del 2017 è stato ampiamente riscritto.
Con la “riforma della riforma” sono stati eliminati alcuni degli aspetti qualificanti dell’impianto originario (ridimensionando, ad esempio, l’udienza filtro davanti al giudice, divenuta oggi decisamente residuale), si è consentito un utilizzo più ampio dei più recenti e sofisticati strumenti tecnologici destinati alla captazione di colloqui (ci si riferisce al captatore informatico, noto come trojan horse) e si è ampliato lo spettro delle intercettazioni utilizzabili in altri procedimenti (in particolare, intervenendo sull’art. 270 c.p.p., in modo da neutralizzare gli effetti “garantisti” della sentenza delle Sezioni unite “Cavallo” del 2019).
L’impianto normativo, frutto dell’interpolazione del 2019, avrebbe dovuto entrare in vigore il primo maggio del 2020 ma lo scoppio della pandemia ha giustificato un nuovo dies a quo, individuato nel primo settembre, cioè il giorno successivo alla fine del periodo feriale.
Avendo la possibilità di rinviare ad un più dettagliato commento della disciplina, contenuto in questo numero della Rivista (Maisano-Piazza, Nota a commento sulla nuova disciplina delle intercettazioni), qui ci si potrà davvero limitare a provare a rispondere ad un’unica domanda, se cioè con il nuovo sistema di regole è raggiungibile obiettivo prefissosi della tutela della riservatezza dei colloquianti, cui aveva fatto riferimento il Garante della privacy.
A ben vedere, le strade seguite dal legislatore per centrare il risultato sembrano essere state due; impedire la pubblicità/pubblicazione delle intercettazioni non utili per le indagini; limitare il più possibile la pubblicità/pubblicazione, soprattutto durante la fase investigativa, di tutti i colloqui intercettati, anche se anche utili per le indagini.
Nella prima prospettiva, la novità più significativa è rappresentata certamente dall’istituzione dell’Archivio digitale delle intercettazioni (ADI), un server contenuto in un ufficio della Procura, sotto la diretta responsabilità del Procuratore, in cui andranno riversate (attraverso il cd conferimento), alla conclusione delle indagini, tutte le tracce foniche ma anche tutti gli atti collegati alle intercettazioni (i decreti autorizzativi, le proroghe, i brogliacci, le annotazioni di p.g. a supporto delle richieste).
Avvenuto il conferimento, la polizia giudiziaria, ma anche le ditte titolari dei server, dovranno definitivamente spogliarsi di tutti gli atti in loro possesso, in modo che essi resteranno presenti solo nell’ADI.
Quest’ultimo – accessibile solo da soggetti specificamente individuati (p.m., p.g., giudice, avvocati, etc.) previa loro identificazione e videoregistrando la loro presenza nell’ufficio dove si trova – serve, quindi, a custodire il materiale non formalmente pubblico, perché non indicato dalle parti (p.m. e difesa) come utile per il processo.
Per consentire all’archivio di svolgere il suo ruolo, la normativa primaria e secondaria prevede una struttura, anche burocratica, particolarmente poderosa e numerosi adempimenti di carattere anche tecnico, con l’individuazione di una serie di figure intermedie, con compiti prestabiliti.
Gli oneri di implementazione gravano sul p.m. che deve gestire l’ADI e conferire tutti gli atti, ma indirette e non irrilevanti conseguenze finiscono per interessare anche i difensori delle parti processuali.
Questi ultimi, anzi, paiono paradossalmente pagare un prezzo molto alto all’altare della riforma, vedendo compressi i loro spazi di operatività; l’avvocato non avrà, infatti, a differenza del passato, diritto ad ottenere copie delle tracce foniche, se non limitatamente di quelle indicate come “utili” dal p.m. e, entro venti giorni dal deposito degli atti ex art. 415 bis c.p.p., avrà, invece, l’onere di indicare quelle ritenute di interesse della difesa, di cui all’esito di un complesso procedimento (accordo con il p.m. e/o “udienza filtro”) potrà ottenere copia.
Un termine quest’ultimo oggettivamente limitato – soprattutto nei processi di criminalità organizzata, tutti fondati sulle intercettazioni – perché, per rispettarlo, gli avvocati dovranno restare ore ed ore ad ascoltare le fonie presenti in archivio, per individuare quelle di loro interesse, onere quest’ultimo asimmetrico rispetto al p.m. che può conoscere, grazie al rapporto continuo con la p.g., via via tutte le intercettazioni effettuate.
La seconda opzione viene, invece, perseguita dal legislatore attraverso una serie di prescrizioni normative che dovrebbero limitare l’eccessiva propalazione dei colloqui pur necessari per l’accertamento del fatto.
L’art. 268, comma 2 c.p.p. che già prevedeva che le intercettazioni vanno trascritte “sommariamente”, rimane formalmente inalterato ma attraverso nuove disposizioni, aliunde innestate (comma 2 bis dell’art. 268 c.p.p., comma 1 ter dell’art. 291 c.p.p., comma 1 bis dell’art. 92 disp. att. c.p.p.), si cerca di evitare che possano essere riportati negli atti processuali che si fondano su intercettazioni espressioni lesive della reputazione o che riguardano dati personali, anche limitando i casi in cui si possa procedere, anche da parte della p.g., alla trascrizione integrale dei colloqui.
Le disposizioni indicate, però, oltre a non essere assistite da alcuna sanzione processuale, in caso di inosservanza, prevedono comunque delle “clausole di salvezza” che consentono di riportare, ad esempio, se necessarie espressioni lesive o di procedere a trascrizioni integrali, finendo, di fatto, per diventare delle blande raccomandazioni, affidate al prudente apprezzamento del p.m. e della p.g..
Da quanto sia pure per estrema sintesi detto, pur premettendo che è davvero troppo presto per tirare somme definitive, una prima risposta al quesito sopra posto non sembra essere orientata al massimo dell’ottimismo.
Si è, infatti, messo in campo un sistema complesso ed articolato, che fra l’altro sta dando filo da torcere nella prima attuazione agli uffici inquirenti e che potrà darne ancor di più agli avvocati, con il rischio tutt’altro che teorico che il gioco non valga la candela; i conferimenti all’ADI non sembrano, infatti, in grado di sterilizzare del tutto il rischio di “fughe di notizie”, perché avvengono alla fine delle indagini, quando le fonie dei colloqui intercettati sono già passati per più “mani” (polizia giudiziaria, società gestori dei service, p.m.) e, inoltre, la riforma sembra scommettere troppo su un cambio di mentalità delle parti processuali (p.g., p.m. ma anche difensori) che richiede fisiologicamente tempo ma che oggi non si intravvede ancora nemmeno da lontano.