L’affresco sul doppio binario penitenziario. Recensione a “Regime ostativo ai benefici penitenziari” di Veronica Manca
Un libro, quello di Veronica Manca, che tutti – pure chi inizia ad affacciarsi al mondo del diritto penitenziario – dovrebbero leggere e custodire in libreria; avendolo sempre a portata di mano quando affrontano le questioni relative, come intitola il volume, al Regime ostativo ai benefici penitenziari.
In verità, è riduttivo chiamarlo libro o volume: si tratta di un affresco entusiasmante, dai colori sempre vivi, del doppio binario penitenziario dove la Manca ci porta con sé, in un viaggio nelle evoluzioni giurisprudenziali e prassi applicative, anche recenti, che per il momento trovano l’ultimo arresto di ampio respiro nella storica sentenza n. 32 del 2020, depositata pochi giorni prima che scoppiasse l’emergenza sanitaria mondiale legata al coronavirus e che, forse, ancora non è stata del tutto metabolizzata dagli stessi operatori pratici.
È nota la “rivoluzionaria” conclusione cui giunge al Corte: l’estensione alla fase dell’esecuzione penale il principio di legalità (trovando copertura costituzionale nell’art. 25 Cost.), superando la visione solo processuale delle norme penitenziarie laddove, incidendo sulla qualità della pena, finiscono per assumere veste di norma penale ‘sostanziale’.
Pochi mesi della decisione n. 32 del 2020, invero, già iniziata la “rivoluzione copernicana” – per usare la brillante penna di Veronica Manca – con la sentenza n. 253 del 2019, avente ad oggetto proprio l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, e la relativa trasformazione da ‘assoluta’ a ‘relativa’ della presunzione di pericolosità del condannato dei delitti ostativi per l’accesso ai benefici extramurari.
La Consulta segue il sentiero aperto qualche mese prima dalla Corte Edu nella sentenza Viola n. 2 contro Italia che ha per prima abbattuto l’endiadi collaborazione con la giustizia=rieducazione, scardinando il sistema che vedeva la collaborazione quale condicio sine qua non per ottenere le misure alternative alla detenzione.
L’affresco di Veronica Manca ha, per l’appunto, come cornice (oltre la quale non si può uscire) e punto di riferimento costante e necessitato quella della Costituzione e dell’apertura sovrannazionale la cui massima espressione è data dalla Convenzione Edu e della preziosa e stimolante giurisprudenza della Corte di Strasburgo (soprattutto sul versante della tutela del diritto di salute del detenuto, nel descrivere la soglia di gravità della sofferenza che fa sconfinare la pena in un trattamento inumano o degradante ex articolo 3 Cedu). Sono i fari costanti attraverso i quali è possibile cercare un difficile (ma non impossibile), equilibrio (mai statico ma sempre dinamico) tra le esigenze di sicurezza della collettività e di quelle di umanizzazione e risocializzazione della pena.
Il volume, a questo riguardo, segue, nelle sue prime pagine, le osservazioni di metodo sostanziale dell’esecuzione penale. Dice l’Autrice: «Il metodo trans-azionale – idoneo al superamento tradizionale del “bizantinismo” formale – si rivela quanto mai necessario anche perché il giurista si deve confrontare con concetti e categorie solo in parte sovrapponibili a quelli classici, mentre per la gran parte, ibridi e nuovi, innestati nel tessuto costituzionale quali parametri di valutazione della conformità delle norme della Costituzione e alle fonti sovrannazionali (tanto da potersi parlare, giocando con i termini, di metodo tran-(n)azionale)».
In tale contributo viene sdoganato lo stereotipo del diritto quale contenitore ‘freddo’ e cristallizzato, per far vivere la prospettiva concreta, appassionata, sempre mutevole nel miglioramento esegetico delle norme dell’ordinamento penitenziario, nella costante valorizzazione del volto rieducativo della pena come dipinto nella Costituzione e nella Cedu e della salvaguardia dei diritti del detenuto, la centralità del trattamento veicolo del fine dell’esecuzione delle pene e della progressione quale percorso imprescindibile per raggiungere il traguardo risocializzante, i cui risultati tangibili si saggiano ove si registri la riduzione dei fenomeni di recidiva successiva all’apertura delle porte del carcere.
Il libro di Veronica Manca scorre veloce, senza mai volergli staccare gli occhi perché segue con chiarezza, ricostruzione critica, profondità argomentativa, un filo logico e sistemico.
Sono, in particolare, i capitoli 4, 5 e 6 quelli in cui si approfondiscono tutti i presupposti e tutti i passaggi applicativi per le varie sub-categorie di condannati 4-bis: 1) i delitti “in prima fascia, c.d assolutamente ostativi (capitolo 4); 2) i delitti ostativi di seconda fascia (capitolo 5) e 3) i sex offender (capitolo 6), per i quali è previsto un percorso rieducativo ad hoc e rinforzato (esteso tale trattamento esecutivo dal codice rosso anche ai condannati delle relazioni criminali: maltrattamenti, stalking, deformazione dell’aspetto della persona). Impossibile non dargli un’occhiata prima di presentare un’istanza in merito, scrivere un gravame o un contributo scientifico.
Il capitolo secondo è invece dedicato ad un’analisi dettagliata e dettagliato del percorso normativo e giurisprudenziale, dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, con un ampio focus anche sul c.d. carcere duro descritto nell’articolo 41-bis: «il binomio 4+4(1)-bis trovava, quindi, la sua origine nel biennio 1991-1992 e nelle contro-riforme che segnarono gli anni della lotta alla mafia».
Si assiste con il decreto legge n. 11 del 2009 al definitivo “cambio di registro” del sistema del doppio binario, con l’ampliamento dell’ombrello dei delitti ostativi ad ulteriori tipi d’autore che mal si conciliano con le ipotesi di criminalità organizzata. Cambio di registro culminato nella legge c.d. Spazzacorrotti n. 3 del 2019 e l’inserimento nel catalogo 4-bis anche dei reati contro la pubblica amministrazione.
La necessità di frenare l’implementazione dei reati ostativi, riducendo il ventaglio delle fattispecie incriminatrici, è al centro dei progetti di legge e delle commissioni di riforma, dei quali l’Autrice da contezza e analitico dettaglio.
La Manca arriva così ai giorni nostri, descrivendo la legislazione per fronteggiare la pandemia da Coronavirus che ha fatto (ri)esplodere l’altra patologia cronica del sovraffollamento carcerario.
La risposta del legislatore è stata insufficiente in quanto, con il decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (Cura Italia) ha «scelto di arginare il problema dell’emergenza sanitaria con una misura assolutamente “irrisoria” sotto il profilo degli effetti e dell’efficacia»: quelle dell’esecuzione della pena presso il domicilio, circondandola di tanti laccetti giuridici e pratici (divieto di accesso per i condannati 4-bis e i sanzionati disciplinarmente per le note rivolte carcerarie esplode nei primi giorni di marzo 2020; braccialetto elettronico per residui di pena superiori a sei mesi) che ne rendono molto difficoltosa la sua applicazione.
Veronica Manca suggerisce allora delle soluzioni de iure condito (ricorso ad altre misure alternative previste nel sistema penitenziario: in tale direzione è andata certa coraggiosa giurisprudenza di sorveglianza) e de iure condendo. Queste ultime vengono descritte minuziosamente dall’Autrice e costituiscono una cartina di tornasole per il legislatore. Esse partono dalla imprescindibile premessa che «l’ordinamento della “giustizia penale”, in un’ottica di riforma, dovrebbe essere immaginato come un unico corpo armonioso: il processo e, ancor prima, il procedimento (v. l’accesso alle misure cautelari diverse dalla custodia cautelare) dovrebbe già all’inizio proiettarsi sull’esecuzione della pena».
La soluzione delineata dalla Manca è quella di allineare il termine di cinque anni, prevista nella fase processuale per la messa alla prova e in quella procedimentale per applicare la custodia cautelare in carcere, per sospendere, ai sensi dell’articolo 656 del codice di procedura penale per la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva (il limite previsto dal legislatore di tre anni, com’è noto, è stato elevato a quattro dalla sentenza n. 41 del 2018 proprio per ovviare a ragionevoli discriminazioni sistemiche legati all’introduzione, nel decreto legge n. 146 del 2013, dell’affidamento allargato).
Allineare pure il tetto dei due anni per poter sospendere condizionalmente la pena detentiva e applicarlo, in esecuzione, per consentire al magistrato di sorveglianza per decidere in via autonoma e provvisoria sull’istanza di misura alternativa presentata dal condannato libero e quello di cui all’articolo 1 della legge n. 199 del 2010 che vuole l’accesso all’esecuzione della pena presso il domicilio per i residui di diciotto mesi.
Ancora, per Veronica Manca occorre eliminare le irrazionali preclusioni di accesso alla detenzione ed esecuzioni domiciliare per i condannati 4-bis e, sotto il versante del diritto di salute, estendere le sospensione/differimento della pena, anche nelle forme della detenzione domiciliare.
Ampio risalto, nella fase 2 della pandemia, viene dato ai decreti legge n. 28 e 29 del 2020, nati sull’onda del dibattito politico e mediatico di alcune “scarcerazioni d’eccellenza”, cercando di blindare i permessi premio e la detenzione domiciliare sia ‘a monte’, prima della loro eventuale concessione (prevedendo il D.L. n. 28 un aggravamento della procedura) e a ‘valle’, dopo di essa, con un costante e defaticante monitoraggio delle condizioni di permanenza di incompatibilità delle scarcerazioni legate anche al rischio di prognosi infausta quoad vitam in caso di contagio da Covid-19 (come introdotto dal D.L. n. 29).
La Manca ricorda, anche alla fine del libro, che «l’emergenza sanitaria Covid-19 ha, peraltro, accelerato bruscamente il processo di frammantazione della disciplina esecutiva differenziata, dando origine ad ulteriori binari speciali, e tendenzialmente ostativi, di accesso ai benefici penitenziari».
Nel capitolo 3 viene approfondito il 4-bis nel dialogo tra le Corti – in primis, come detto, tra la Consulta (viene ripercorsa dall’Autrice la giurisprudenza costituzionale sul doppio binario) e la Corte Edu, che hanno riportato l’ordinamento verso un modello di esecuzione della pena, flessibile, sottratto il più possibile, a meccanismi di non ravvedimento presunto e assolutivizzato che ha avuto la sua punta di iceberg nelle storiche sentenze nn. 253 del 2019 e 32 del 2020.
Bisogna comprendere che una pena senza speranza è una sanzione penale contraria al diritto costituzionale e convenzionale, uscendo dall’etichetta per la quale il condannato 4-bis è un condannato pericoloso per sempre. Non si riesce ad invertire la rotta neanche nei recenti provvedimenti della fase pandemica – da ultimo il decreto legge ristori n. 137 del 2020, meramente riproduttivo del decreto legge n. 18 del 2020 – che continuano a prevedere paletti ostativi anche per l’accesso dell’unica misura ‘svuota-carceri’ per i detenuti condannati per delitti 4-bis, addirittura (la ciliegina sulla torta) quand’anche inserito nel cumulo con reati non ostativi (norma, quest’ultima, in contrasto con la Costituzione e il diritto vivente).
Pertanto – per usare le parole di Veronica Manca – il ricorso al “doppio binario” pare essere la soluzione ideale per attuare gli slogans politici della deterrenza e della certezza della pena, dove si avverte «la necessità di ricorrere alla fase esecutiva per congelare ogni possibilità di reinserimento sociale del condannato, quale forma di punizione vera e propria, che si colloca alla fine del processo e oltre la pena».
Per tali ragioni, l’Autrice conclude che, pur rimanendo ferma la necessità di una riforma complessiva di razionalizzazione all’accesso dei benefici penitenziari, occorre una progressiva relativizzazione delle preclusioni, dando al giudice – come hanno stabilito la Corte costituzionale e la Corte Edu – la valutazione della situazione soggettiva tipica di ogni caso concreto.
Una chiosa finale mi sia consentita in ciò che la Manca non dice, o accenna appena: vale a dire al termine “svuota-carceri”. La scelta è colma di consapevolezza: sono convinto che l’onda mediatica si spaventa del termine svuota-carceri, volutamente sbandierata dalla classe politica, per fare alzare il livello del pubblic panic e opporsi fermamente a tali misure di apertura delle porte delle prigioni. L’obiettivo finale è quello di frenare o bloccare sul nascere ampliamenti di benefici extramurari per saziare l’opinione pubblica, spaventata dallo stesso legislatore.
Per questo non bisogna cadere nella trappola di utilizzare alcuni termini che non consentono il pieno dispiegarsi di una pena ontologicamente flessibile e umana, come dipinta e incorniciata nella Costituzione e magnificamente narrata nel libro di Veronica Manca.