La Corte di Giustizia UE sulla esistenza di un diritto al silenzio nell’ambito dei procedimenti Consob per gli abusi di mercato.
[a cura di Lorenzo Roccatagliata]
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione,
Sentenza 2 febbraio 2021, Causa C-481/19
In attesa di accogliere un commento più ragionato, pubblichiamo la sentenza con cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, riunita in Grande Sezione, ha riconosciuto l’esistenza, in capo alle persone fisiche, di un diritto al silenzio, tutelato dagli articoli 47, comma 2, e 48 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), nell’ambito dei procedimenti innanzi alla Consob per gli illeciti amministrativi di abuso di mercato.
1. La questione di legittimità costituzionale (Cass. civ., Ord. n. 3831/18).
La pronuncia qui allegata deve le proprie origini a una iniziale ordinanza della Corte di cassazione (Cass. civ., Sez. II, Ord. n. 3831/2018), relativa ad un procedimento amministrativo per l’illecito di abuso di informazioni privilegiate, in cui una persona fisica era stata sottoposta a una sanzione pecuniaria, di importo ragguardevole, per non avere risposto alle domande della CONSOB su operazioni finanziarie sospette da essa compiute (ai sensi dell’art. 187 quinquiesdecies T.U.F.). L’interessato aveva impugnato la sanzione, sostenendo di aver esercitato il diritto costituzionale di non rispondere a domande da cui sarebbe potuta emergere la propria responsabilità (“nemo tenetur edere contra se”, discendente dagli articoli 24 Cost. e 6 CEDU).
La Corte di cassazione ha – fra l’altro – rimesso alla Consulta la “questione di legittimità costituzionale dell’articolo 187 quinquiesdecies T.U.F., nel testo originariamente introdotto dall’articolo 9, comma 2, lett. b), della legge 18 aprile 2005 n. 62 – nella parte in cui detto articolo sanziona la condotta consistente nel non ottemperare tempestivamente alle richieste della CONSOB o nel ritardare l’esercizio delle sue funzioni anche nei confronti di colui al quale la medesima CONSOB, nell’esercizio delle sue funzioni di vigilanza, contesti un abuso di informazioni privilegiate – in relazione agli articoli 24, 111 e 117 Cost., quest’ultimo con riferimento all’articolo 6 CEDU e con riferimento all’art. 14, comma 3, lett. g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, nonché in relazione agli articoli 11 e 117 Cost., con riferimento all’articolo 47 CDFUE“.
2. La remissione alla Corte di Giustizia (Corte cost., Ord. n. 117/19).
Investita della questione, la Corte, con la Ordinanza n. 117/2019, ha a sua volta rimesso alcune questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia UE.
Anzitutto, la Corte ha ricordato come “il ‘diritto al silenzio’ dell’imputato – pur non godendo di espresso riconoscimento costituzionale – costituisca un ‘corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa’, riconosciuto dall’art. 24 Cost. (…). Tale diritto garantisce all’imputato la possibilità di rifiutare di sottoporsi all’esame testimoniale e, più in generale, di avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande del giudice o dell’autorità competente per le indagini” (Ordinanza, para 7.1).
Al tempo stesso, la Corte ha ricordato di non essere mai stata, sino a quel momento, “chiamata a valutare se e in che misura tale diritto – appartenente al novero dei diritti inalienabili della persona umana (…), che caratterizzano l’identità costituzionale italiana – sia applicabile anche nell’ambito di procedimenti amministrativi funzionali all’irrogazione di sanzioni di natura ‘punitiva’ secondo i criteri Engel. Tuttavia, in molteplici occasioni essa ha ritenuto che singole garanzie riconosciute nella materia penale dalla CEDU e dalla stessa Costituzione italiana si estendano anche a tale tipologia di sanzioni. Ciò è avvenuto, in particolare, in relazione alle garanzie del divieto di retroattività delle modifiche sanzionatorie in peius (…), della sufficiente precisione del precetto sanzionato (…), nonché della retroattività delle modifiche sanzionatorie in mitius (…). Inoltre, questa Corte ha già più volte affermato che le sanzioni amministrative previste nell’ordinamento italiano in materia di abuso di informazioni privilegiate costituiscono, in ragione della loro particolare afflittività, misure di natura ‘punitiva’ (…), così come – peraltro – ritenuto dalla stessa Corte di giustizia UE (…)” (Ordinanza, para 7.1).
Nondimeno, ha rilevato la Corte che “ai fini della decisione dell’incidente di legittimità costituzionale (…) occorre peraltro considerare (…) che l’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, in questa sede censurato, è stato introdotto nell’ordinamento italiano in esecuzione di uno specifico obbligo posto dalla direttiva 2003/6/CE; e che tale disposizione costituisce, oggi, la puntuale attuazione di un’analoga disposizione del regolamento (UE) n. 596/2014, che ha abrogato la direttiva medesima” (Ordinanza, para 8).
In particolare, “l’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE prevedeva: ‘gli Stati membri fissano le sanzioni da applicare per l’omessa collaborazione alle indagini(…)’” e “l’art. 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 stabilisce analogamente che, fatti salvi le sanzioni penali e i poteri di controllo delle autorità competenti a norma dell’art. 23, gli Stati membri provvedono affinché le autorità competenti abbiano il potere di adottare le sanzioni amministrative e altre misure amministrative adeguate per 1’omessa collaborazione o il mancato seguito dato nell’ambito di un’indagine, un’ispezione o una richiesta (…)” (Ordinanza, para 8.1 e 8.2).
La Corte aveva dunque ritenuto che “da tutto ciò consegue che una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale in parte qua dell’art. 187-quinquiesdecies del d. Igs. n. 58 del 1998 rischierebbe di porsi in contrasto con il diritto dell’Unione, e in particolare con l’obbligo che discende oggi dall’art. 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014, obbligo di cui il menzionato art. 187-quinquesdecies costituisce attuazione. Peraltro, tale obbligo – così come quello che discendeva in passato dall’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE – potrebbe risultare di dubbia compatibilità con gli artt. 47 e 48 CDFUE, i quali pure sembrano riconoscere un diritto fondamentale dell’individuo a non contribuire alla propria incolpazione e a non essere costretto a rendere dichiarazioni di natura confessoria, nei medesimi limiti desumibili dall’art. 6 CEDU e dall’art. 24 della Costituzione italiana” (Ordinanza, para 9).
Conseguentemente, ai sensi dell’articolo 267 TFUE la Consulta ha operato il seguente rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
“Se l’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE (…), e l’art. 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014:
- debbano essere interpretati nel senso che consentono agli Stati membri di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura ‘punitiva’;
- in caso di risposta negativa a tale prima questione, siano compatibili con gli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di art. 6 CEDU e delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, nella misura in cui impongono di sanzionare anche chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura ‘punitiva’“.
3. La Sentenza della Corte di Giustizia (Grande Sezione, Sent. 2.2.21).
Come si anticipava, la Corte ha anzitutto riconosciuto l’esistenza di un diritto al silenzio, tutelato dagli articoli 47, comma 2, e 48 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), nell’ambito dei procedimenti pendenti a carico di persone fisiche innanzi alla Consob per illeciti amministrativi di abuso di mercato.
Inoltre, i Giudici di Lussemburgo hanno ritenuto che la Direttiva 2003/6/CE e il Regolamento (UE) n. 596/2014 in tema di abusi di mercato permettono agli Stati membri di rispettare tale diritto nell’ambito di un’indagine suscettibile di portare all’accertamento della responsabilità della persona per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale ovvero della sua responsabilità penale.
Più in dettaglio, gli articoli 14, paragrafo 3, della Direttiva 2003/6/CE e 30, paragrafo 1, lettera b), del Regolamento (UE) n. 596/2014, in tema di abusi di mercato, letti alla luce degli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), devono essere interpretati nel senso che essi consentono agli Stati membri di non sanzionare una persona fisica, la quale, nell’ambito di un’indagine svolta nei suoi confronti dall’autorità competente a titolo di detta direttiva o di detto regolamento, si rifiuti di fornire a tale autorità risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale (Sentenza, ultimo para).
Nel motivare la propria conclusione, la Corte ha ricordato che, alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) relativa al diritto ad un equo processo, il diritto al silenzio, che è al centro della nozione di “equo processo”, osta a che una persona fisica “imputata” venga sanzionata per il suo rifiuto di fornire all’autorità competente, ai sensi della Direttiva 2003/6/CE o del Regolamento n. 596/2014, risposte che potrebbero far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative a carattere penale oppure la sua responsabilità penale (Sentenza, para 37-45).
Il diritto al silenzio comunque non può ritenersi esente da limiti. Esso infatti non può giustificare qualsiasi omessa collaborazione della persona interessata con le autorità competenti, come in caso di rifiuto di presentarsi ad unʼaudizione prevista da queste ultime o di manovre dilatorie intese a rinviare lo svolgimento di tale audizione (Sentenza, para 41).
La Corte ha infine ritenuto che tanto la Direttiva 2003/6/UE quanto il Regolamento n. 596/2014 si prestano ad un’interpretazione conforme agli articoli 47 e 48 CDFUE (e dunque al diritto al silenzio), nel senso che essi non impongono che una persona fisica venga sanzionata per il suo rifiuto di fornire all’autorità competente risposte da cui potrebbe emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale (Sentenza, para 50-55).
Ciò posto, il fatto che nei testi normativi suddetti manchi un’esplicita esclusione dell’inflizione di una sanzione per un rifiuto siffatto non può pregiudicare la loro validità. Incombe agli Stati membri garantire che una persona fisica non possa essere sanzionata per il suo rifiuto di fornire risposte siffatte all’autorità competente (Sentenza, para 56 e 57).