La sentenza di condanna non definitiva ad una pena non superiore ai tre anni impone la sostituzione della custodia cautelare in carcere con altra misura meno afflittiva.
[a cura di Lorenzo Roccatagliata]
Cass. pen., Sez. V, Sent. 8 febbraio 2021 (ud. 20 gennaio 2021), n. 4948
Presidente Catena, Relatore Borrelli
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di cassazione, Sezione quinta, si è pronunciata in merito al requisito per l’applicazione della custodia cautelare in carcere previsto dall’art. 275, comma 2 bis, c.p.p., vale a dire la prognosi del giudice che, all’esito del giudizio, sarà irrogata una pena detentiva superiore a tre anni.
Nel caso di specie, in particolare, il Collegio è stato chiamato a decidere se una condanna non superiore a tre anni, pronunciata in pendenza della custodia cautelare, possa o debba essere preclusiva del mantenimento di tale misura detentiva.
In merito alla norma in questione, la Corte ha anzitutto ricordato che “la valutazione predittiva circa la condanna a pena superiore ai tre anni si colloca nella fase genetica della misura cautelare: l’obbligo ad essa relativo impone al Giudice della cautela di valutare, nella scelta della custodia in carcere piuttosto che di altre misure, se l’imputato potrà essere destinatario di una condanna a pena ultratriennale. Solo nel caso in cui questo vaglio si concluda con esito positivo, il Giudice investito della richiesta del pubblico ministero potrà applicare, nella ricorrenza degli altri presupposti di legge, la misura di massimo rigore. Ovviamente, poiché si tratta di un passaggio dell’iter delibativo sulla richiesta della massima misura, esso deve trovare riscontro nella motivazione, nella quale il Giudice della cautela dovrà dare atto di avere svolto la prognosi in parola, enunziando le ragioni per le quali essa si concluda in senso sfavorevole al destinatario del vincolo. A tale dovere argomentativo ulteriormente consegue che l’ordinanza genetica può essere censurata ex art. 309 codice di rito laddove la motivazione sul punto manchi e che il Tribunale del riesame deve dare luogo al vaglio di competenza, anche eventualmente utilizzando i propri poteri integrativi”.
In merito alle sorti della misura nel caso di condanna non ultratriennale, il Collegio ha rilevato un contrasto nella giurisprudenza della Corte: “vi sono, infatti, pronunzie che ritengono foriera di effetti caducatori automatici del vincolo carcerario la condanna a pena entro i tre anni sopravvenuta alla prima applicazione del vincolo (…) e decisioni che limitano la portata ostativa della condanna a pena contenuta nei tre anni rispetto alla custodia in carcere alla sola fase genetica e che negano detto automatismo in fase dinamica, salva la possibilità di valutare comunque la sopraggiunta condanna a pena non ultratriennale nell’ambito dello scrutinio di perdurante adeguatezza della misura massima ex art. 299 cod. proc. pen.”.
Preso atto del contrasto, la Corte ha ritenuto di aderire al primo orientamento, ritenendo che “la disposizione in parola trovi comunque uno sbocco anche nella fase successiva alla prima applicazione e, in particolare, quando la condanna ostativa alla custodia in carcere, quella non ultratriennale, concretamente si verifichi”.
Nel motivare la propria decisione, il Collegio ha chiarito che “milita in questa direzione la convinzione che la regola più volte evocata attenga, costituendone una precisazione, al profilo della proporzionalità della misura cautelare, cristallizzando a livello normativo l’esistenza di una sproporzione tra custodia in carcere e condanna a pena non ultratriennale. Se così è, non è senza rilievo il principio acquisito nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la valutazione della proporzionalità della misura cautelare va operata non solo nella fase genetica della misura cautelare, ma anche in quella dinamica”. Infatti, “laddove intervenga un nuovo accadimento di ordine processuale, lo scrutinio non può non tenerne conto, in particolare essendo necessario che il Giudice della cautela si adegui alle valutazioni della pronunzia di merito sulla regiudicanda (…), anche quanto alla sanzione inflitta”.
Al tempo stesso, la Corte ha dovuto prendere atto che il comma 2 bis di per sé non colpisce la misura della custodia cautelare in carcere quando sia pronunciata condanna non ultratriennale, con la conseguenza che deve escludersi una caducazione automatica della misura. Sul punto, la Corte ha rilevato che “lo strumento procedimentale attraverso il quale il vaglio di proporzionalità può essere effettuato anche in fase successiva a quella di emissione del titolo è offerto dalla norma generale di cui all’art. 299, comma 2, cod. proc. pen., che prevede che il Giudice sostituisca la misura con altra meno grave quando quella originariamente individuata non appaia più proporzionata alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata; strumento suscettibile di utilizzo a fortiori rispetto alla pena concretamente inflitta, nell’ottica del già precisato dovere del Giudice della misura cautelare di attenersi alla decisione di quello del merito”.
Pertanto, ha concluso la Corte “in applicazione dell’art. 299, comma 2, cod. proc. pen., dunque, il Giudice che procede, sopravvenuta la condanna a pena non superiore ai tre anni di reclusione, dovrà sostituire la custodia in carcere con misura meno afflittiva”.
Alla luce di tali riflessioni, la Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: “in materia di misure cautelari personali l’impossibilità di applicare la custodia in carcere laddove sia pronosticabile l’irrogazione di una pena non superiore a tre anni di reclusione, di cui all’art. 275, comma 2-bis, cod. proc. pen., costituisce una regola di valutazione della proporzionalità della custodia in carcere di cui va tenuto conto, ai sensi dell’art. 299, comma 2, cod. proc. pen., anche nella fase dinamica della misura cautelare, in particolare allorché sopravvenga una sentenza di condanna, quantunque non definitiva, a pena inferiore al suddetto limite, evenienza che impone la sostituzione della custodia in carcere con altra misura meno afflittiva”.