L’esercizio abusivo della professione di commercialista e le attività non riservate
in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 3 – ISSN 2499-846X
Tribunale di Bologna, 2 marzo 2021, n. 189
Giudice Dott. Stifano
Il soggetto che pone in essere in via abituale, continuativa e onerosa una condotta ascrivibile alla professione del commercialista, caratterizzata dall’espletamento di atti riservati e non (adempimenti contabili e fiscali, deposito del bilancio, presentazione del Modello Unico d’imposta, spendita del titolo di “dottore commercialista”), risponde del reato di cui all’art. 348 c.p.
Secondo il Tribunale di Bologna, difatti, lo svolgimento per un periodo prolungato di tali prestazioni, nonostante alcune di esse (come la presentazione del bilancio di esercizio) non siano riservate alla professione, aveva ingenerato nella società cliente un legittimo affidamento che l’imputato fosse iscritto all’albo professionale.
Il Giudice bolognese muove da una premessa generale sul tema, sostenendo come “occorre osservare preliminarmente che la norma incriminatrice di cui all’art. 348 c.p. (oggetto dell’imputazione sub b) trova la propria ratio nella tutela dell’interesse generale, di pertinenza della pubblica amministrazione, a che determinate professioni vengano esercitate da chi, avendo conseguito una particolare abilitazione professionale, risulti in possesso di particolari requisiti deontologici e tecnici richiesti dalla legge; requisiti cui la norma rinvia in via di integrazione necessaria. In ragione della predetta necessaria integrazione, la norma in esame viene generalmente configurata sia in dottrina che in giurisprudenza come una norma penale in bianco”.
Segue una approfondita ricostruzione giurisprudenziale: “la centrale locuzione “esercita una professione” attiene “ai contenuti dell’attività professionale e non può che trovare anch’essa la sua concreta integrazione nelle fonti che disciplinano le singole professioni” e che la “abusività” prevista dalla norma viene conseguentemente riconnessa, in pratica, alla mancanza della iscrizione del soggetto attivo nell’apposito albo professionale (cfr. Sez. U, Sentenza n. 11545 del 15/12/2011). In via generale si può pertanto evidenziare che, ai fini della tutela penale, l’esercizio di una professione deve necessariamente esplicarsi con rilevanza esterna”.
In sentenza vengono, quindi, segnalati orientamenti contrastanti, proprio in relazione all’esercizio abusivo della professione di commercialista:
– “l’indirizzo tradizionale riteneva che gli atti inclusi nella protezione penale accordata all’ordinamento fossero solo quelli attribuiti in via esclusiva alla professione di commercialista, osservando che in mancanza di tale limitazione si sarebbe determinata una indebita compressione dei diritti di libertà ed iniziativa economica spettanti a ciascun individuo”;
– “un secondo orientamento, inaugurato in giurisprudenza dalla sentenza della Sez. VI, n. 49 dell’ 08.10.2002 (Notanistefano, Rv. 223215), riteneva invece che assumessero rilevanza tutti gli aspetti comunque caratteristici della professione; dunque non solo gli atti attribuiti in via esclusiva, ma anche quelli definiti “relativamente liberi”, nel senso che i medesimi potrebbero essere compiuti da chiunque a titolo occasionale, salvo poi acquisire natura “riservata” laddove posti in essere in via continuativa ed organizzata. Anche in questa seconda ipotesi, secondo la Corte, si ha “esercizio della professione” per cui è richiesta l’iscrizione nel relativo albo, ricorrendo parimenti la necessità “di tutelare il cittadino dal rischio di affidarsi, per determinate esigenze, a soggetti inesperti nell’esercizio della professione o indegni di esercitarla””;
– il citato contrasto interpretativo è stato risolto nel 2012 dalle Sezioni Unite, che hanno abbracciato l’orientamento più estensivo, secondo cui “il principio di effettività delle fattispecie incriminatrici, discendente da quello di legalità e riferibile, come questo, non solo alle previsioni direttamente contenute nelle norme penali ma anche a quelle delle fonti extrapenali che ne costituiscono sostanziale integrazione, impedisce di dare qualsiasi rilievo, ai fini della norma di cui all’art. 348 cod. pen. a disposizioni di carattere così indeterminato come quella sopra indicata (Sez. U, Sentenza n. 11545 del 15/12/2011 Ud. (dep. 23/03/2012) a p. 13). Sulla base di queste statuizioni di principio è stato chiarito che “Integra il reato di esercizio abusivo di una professione (art. 348 cod. pen.), il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato. (Fattispecie relativa all’abusivo esercizio della professione di commercialista; cfr. Sez. U, Sentenza n. 11545 del 15/121201,Rv. 251819; Sez. 6, Sentenza n. 33464 del 10/05/2018, Rv. 273788 – 01)”.
Il Tribunale felsineo ha dunque ritenuto responsabile il commercialista per il reato di cui all’art. 348 c.p.; intervenuta, invece, sentenza assolutoria per l’imputazione di truffa, non essendo ravvisabile – nonostante la sussistenza degli artifizi e dei raggiri – l’ingiusto profitto.
Come citare il contributo in una bibliografia:
L. N. Meazza, L’esercizio abusivo della professione di commercialista e le attività non riservate, in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 3