Ragionevole durata del processo, pandemia e assenza di leggi scientifiche di copertura
in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 4 – ISSN 2499-846X
Giudice per le Indagini Preliminari di Reggio Emilia, 15 settembre 2020 (ord.)
Dott. Andrea Rat
Cassazione Penale, Sez. IV, 2 febbraio 2021 (ud. 21 gennaio 2021), n. 3982
Presidente Fumu, Relatore Serrao
L’emergenza da Covid-19 ha, per forza di cose, dato luogo all’apertura di indagini intese a verificare se, specie in contesti socio-sanitari, siano stati commessi reati di carattere colposo. Invero, da quando è scoppiata la pandemia da coronavirus i procedimenti iscritti presso le Procure della Repubblica per reati di omicidio colposo ed epidemia colposa ex artt. 589 e 438, 452 c.p. si sono moltiplicati.
Eppure, a un anno dallo scoppiare del fenomeno, emerge chiaramente che l’attività di indagine deve scontrarsi con questioni probatorie difficilmente superabili, frutto dell’incertezza scientifica tuttora dilagante tanto in ordine all’emergenza pandemica nel suo complesso quanto ai processi di trasmissione individuale del virus.
È presto intuitivo comprendere che l’incertezza in seno alla comunità scientifica si riverbera sulla possibilità di addivenire all’accertamento della responsabilità penale per questi reati nel pieno rispetto del canone, ineludibile, dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Volendo lasciare in disparte il lungo (rectius stimolante) dibattito attinente il profilo colposo delle suindicate fattispecie di reato in relazione al Covid-19, interessa piuttosto evidenziare che la scienza – sebbene abbia fornito un contributo indiscutibilmente prezioso nella lotta al coronavirus – non ha ancora elaborato leggi di copertura sulla cui base poter svolgere accertamenti causali alla stregua dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità già a partire dal caso Franzese e sino al più recente caso Cozzini. Ciò interessa, in particolare, nell’accertamento di ipotizzate responsabili penali per singole morti covid-correlate (art. 589 c.p.).
D’altro canto, anche i dati di natura epidemiologica sono insufficienti, non avendo ancora una consistenza tale da poter essere posti alla base dell’accertamento di fattispecie come quella di epidemia colposa (artt. 438, 452 c.p.); e ciò malgrado la giurisprudenza di legittimità abbia in passato accolto – non senza critiche – con favore la suggestione di ricorrere all’evidenza epidemiologica di un eccesso di mortalità in una popolazione esposta ad un determinato fattore di rischio per indagare in ordine al nesso eziologico tra la condotta posta in essere dal soggetto attivo e l’evento epidemico.
Il quadro sin qui descritto solleva poi ulteriori problematiche – vecchie e nuove – derivanti dalla necessità di bilanciare i diversi interessi che entrano ineludibilmente in collisione nel corso di questi delicati procedimenti penali. Se da una parte infatti è indubbia l’esigenza di ricorrere alla scienza – mediante il coinvolgimento di esperti – nell’espletamento delle attività investigative prima e processuali poi, l’incertezza di cui si è dato conto costringe gli addetti ai lavori – ed in modo particolare il giudicante, titolare del poter di valutare l’utilità della prova – a domandarsi se sia opportuno aggravare il procedimento penale con attività peritali tanto gravose per la persona sottoposta alle indagini (o per l’imputato) quanto rischiose per coloro che dovrebbero concretamente eseguirle, specie allorché la prospettiva di ottenere indicazioni scientifiche utilizzabili ai fini del decisum si riveli ex ante alquanto remota, proprio sulla base delle risposte preliminari che gli stessi esperti forniscono nell’espletamento del proprio incarico. Entra in gioco, in quest’ottica, il principio della ragionevole durata del processo, che secondo l’ormai costante giurisprudenza della Corte Edu estende la propria portata non solo alla frazione strettamente processuale della vicenda, ma opera già dalla fase d’indagine, comprendendo altresì la parentesi – eventuale – dell’incidente probatorio richiesto allorché l’autorità giudiziaria voglia procedere ad accertamenti irripetibili ex art. 360 c.p.p.: il riferimento è al classico caso in cui il pubblico ministero intenda porre in essere un atto irripetibile e di tutto contro l’imputato, tramite difensore, presenti richiesta di incidente probatorio, con ciò coinvolgendo il giudice delle indagini preliminari nella vexata quaestio.
È ciò che si è verificato in una recente vicenda processuale dinanzi al giudice delle indagini preliminari di Reggio Emilia, il quale era stato investito da una richiesta di incidente probatorio dopo che il pubblico ministero aveva espresso l’intenzione di esumare a fini autoptici ben 18 cadaveri, con lo scopo precipuo di verificare se i soggetti fossero deceduti per (rectius a causa del) Covid-19. Da lì la nomina di un esperto chiamato a chiarire preliminarmente se “alla luce della miglior scienza ed esperienza (indicandone le ragioni e quelle per cui eventuali teorie alternative non vengano ritenute dotate della medesima valenza e attendibilità scientifica), tenendo altresì conto del tempo trascorso dalla sepoltura e dei naturali processi di degradazione cadaverica, se l’accertamento autoptico sia in grado di rilevare l’eventuale esistenza, all’epoca del decesso di ciascuna delle persone offese, del Virus SARS –CoV2 o della malattia COVID-19, e se lo stesso sia capace di fornire indicazioni medico-legali ulteriori ed univocamente interpretabili dal punto di vista tecnico-scientifico rispetto a quanto già emergente dalle cartelle cliniche disponibili”; quesito a cui il perito ha risposto rilevando che “…Considerato il tempo trascorso ad oggi dal decesso ed in ragione del prevedibile (in termini generali) relativo stato di conservazione dei principali tessuti interessati dalla patologia de quo, si ritiene possibile (ma non per questo probabile per i motivi precedentemente esposti), mediante ricorso ad attento esame anatomo-istologico, individuare alterazioni strutturali riconducibili all’azione virulenta dell’agente patogeno in questione. In sostanza, pur con tutti i limiti sopra descritti e tenendo in ogni caso ben presenti i segnalati rischi per gli operatori e la collettività nonché le difficoltà legate al reperimento di adeguati ambienti per l’effettuazione delle procedure, deve concludersi che le esumazioni delle 18 salme in oggetto possono fornire informazioni medico-legali utili alla diagnosi di Covid-19. Non ci si può spingere, allo stato, verso stime di maggiore consistenza deterministica per le numerose incognite di ordine biologico, tanatologico e conoscitive del patogeno capaci di influenzare i risultati attesi.”
Su queste basi il giudice emiliano ha assunto una decisione decisamente apprezzabile, in particolare per l’analisi svolta in ordine alla probabilità (esigua a dire dello stesso perito) di ottenere dall’incidente probatorio indicazioni rilevanti ai fini delle conseguenti determinazioni decisorie, spettanti tanto all’autorità giudiziaria quanto al futuro giudice della cognizione. Particolare attenzione è stata riservata, inoltre, all’incertezza prospettata dall’esperto sul piano della intrinseca rischiosità delle attività peritali richieste, nella duplice ottica di tutelare sia coloro che avrebbero dovuto eseguire quanto necessario a fini accertativi sia la collettività nel suo complesso.
Una vicenda particolarmente delicata, ove è pulsante l’esigenza di addivenire ad un accertamento di eventuali responsabilità penali; vicenda nei meandri della quale si sono fatti spazio, prevalendo, i principi della salute pubblica e di ragionevole durata del processo penale, così come cristallizzato dalla giurisprudenza nazionale e convenzionale.
Nel bilanciamento tra i vari interessi in gioco il giudicante ha ritenuto la prevalenza dell’interesse a che gli indagati non fossero sottoposti ad un irragionevole ampliamento temporale dell’iter procedimentale, stante il rischio, assai concreto, di non ottenere dalla verifica tecnica richiesta elementi utili a fini decisori, anche alla luce degli stringenti parametri di accertamento causale in materia penale. Sotto diverso profilo è stata altresì evidenziata l’esigenza di tutelare la salute pubblica ed in particolare quella di coloro che avrebbero dovuto esumare corpi di persone che erano tragicamente decedute ormai diversi mesi addietro, dunque in uno stato di decomposizione tale da rendere ancor di più aleatorio l’esito dell’attività peritale. Sulla base di queste statuizioni il Tribunale è giunto pertanto al rigetto della richiesta di incidente probatorio con restituzione degli atti al pubblico ministero.
Si tratta di una decisione perfettamente in linea con il potere del giudice delle indagini preliminari di valutare l’utilità della prova richiesta, che infatti, nel prosieguo del procedimento, ha trovato l’avallo della Suprema Corte di Cassazione.
Come citare il contributo in una bibliografia:
M. Gambarati, Ragionevole durata del processo, pandemia e assenza di leggi scientifiche di copertura, in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 4