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La sentenza del Tribunale di Milano nel caso Banca Monte dei Paschi di Siena (vicenda derivati, operazioni Alexandria e Santorini)

Tribunale di Milano, Sezione II penale, 7 aprile 2021 (ud. 15 ottobre 2020), n. 10748
Presidente Tanga, Estensore Saba

1. Segnaliamo ai lettori il deposito delle oltre 300 pagine di motivazioni della sentenza del Tribunale di Milano, sezione II penale, nella vicenda BMPS derivati (operazioni Alexandria e Santorini), nella quale agli imputati venivano contestate le fattispecie di false comunicazioni sociali di cui all’art. 2622 c.c. e manipolazione del mercato di cui all’art. 185 TUF.

2. In punto di diritto, il Tribunale – quanto alla prima contestazione – ha ricordato, in tema di falso valutativo, «l’indirizzo interpretativo (da ultimo recepito nel pronunciamento a sezioni unite del 2016) che ravvisa nella mancata aderenza ai criteri valutativi prescelti l’autentico e più intimo significato della falsità stigmatizzata dal legislatore penale (c.d. criterio della verità coerente)».

L’arresto giurisprudenziale – si legge nella sentenza – «poggia sulla lucida disamina della materia contabile e perviene all’indiscutibile conclusione secondo cui il bilancio, in tutte le sue componente, è documento dal contenuto essenzialmente valutativo, redatto secondo apprezzamenti formulati in applicazione di criteri vincolanti e predeterminati (di fonte normativa o comunque generalmente accettati dalla comunità scientifica), che rendono detta valutazione (siccome guidata) un modo di rappresentare la realtà non dissimile dalla descrizione o dalla constatazione, di cui dunque è predicabile la falsità (per violazione del parametro di giudizio). È, tuttavia, ben possibile che il redattore del bilancio decida di discostarsi dai criteri valutativi fissati per legge (o tecnicamente validati), purché di tale deroga offra un’adeguata informazione giustificativa nella nota integrativa (art. 2427 cod. civ.) – che rappresenta la chiave di lettura della comunicazione sociale – onde renderne edotti i destinatari».

Come precisato dalle Sezioni Unite, infatti, «i destinatari della informazione (i lettori del bilancio) devono essere posti in grado di effettuare le loro valutazioni, vale a dire di valutare un documento, già in sé di contenuto essenzialmente valutativo. Ma tale ‘valutazione su di una valutazionenon sarebbe possibile (ovvero sarebbe assolutamente aleatoria) se non esistessero criteri – obbligatori e/o largamente condivisi – per eseguire tale operazione intellettuale»; è questo, secondo il Tribunale, un «precitato del principio di chiarezza (a tutela del bene giuridico della trasparenza), che impone al redattore del bilancio – documento composito e complesso (la cui piena comprensione presuppone una specifica preparazione) – di indicare i parametri impiegati nell’operazione valutativa, onde consentire ai lettori di ripercorrerne il processo logico di formazione».

3. Quanto alla seconda fattispecie contestata (art. 185 TUF), si tratta di disposizione – posta a tutela del regolare funzionamento dei mercati quale bene pubblico d’interesse collettivo (così il considerando 2 della direttiva 2003/6/CE) nonché, indirettamente, del patrimonio individuale degli investitori – che prevede due diverse tipologie di condotte punibili: la diffusione di notizie false (aggiotaggio informativo) nonché l’esecuzione di operazioni simulate o altri artifizi (aggiotaggio manipolativo o operativo), purché connotati dall’idoneità a determinare la sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari (elemento di tipicità che contrassegna l’offensività del fatto).

Il Tribunale – dopo aver ricordato come, secondo un primo orientamento, il reato di aggiotaggio integrerebbe reato unisussistente, di mera condotta e di pericolo concreto mentre, secondo altra opzione esegetica, si tratterebbe di reato d’evento pericoloso eventualmente permanente – ha ritenuto di aderire al primo orientamento, in quanto «maggiormente aderente al tenore letterale della norma, ove s’individua come nucleo disvaloriale dell’incriminazione la mera condotta di diffusione di notizie false, con qualsiasi modalità realizzata (e, dunque, non necessariamente secondo le procedure previste dal TUF), purché idonea a produrre effetti concretamente distorsivi del mercato; in altri termini, si discetta, a parere del Collegio, di reato istantaneo, di mera condotta (di pericolo concreto) nonché a forma libera».

La diffusione di notizie false (in contestazione nel presente giudizio) «consiste nella divulgazione verso una pluralità indeterminata di destinatari (il pubblico indistinto) di informazioni – contraddistinte da specificità e chiarezza – non corrispondenti al vero: come argutamente sostenuto (cfr. Cass. pen., sez. V, 15 ottobre 2012, n. 40393), la valutazione sulla falsità della notizia (e correlata attitudine distorsiva) presuppone ineluttabilmente l’accertamento del contenuto che avrebbe assunto la comunicazione ove rispondente a verità, quale presupposto necessario non soltanto alla verifica di idoneità delle false notizie a recare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, ma – prima ancora di ciò – alla formazione del giudizio sulla falsità stessa delle notizie: giacché non è dato parlare di falsità, se non in esito ad un confronto col dato veridico e alla constatazione della relativa difformità».

Trattandosi di un delitto di mero pericolo, «è sufficiente siano poste in essere le cause dirette a cagionare una sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari quotati nelle liste di borsa, senza che sia necessario il verificarsi di tale evento, che potrà al più assumere, come osservato in dottrina, valenza indiziante dell’idoneità della condotta. In definitiva, il reato può sussistere senza che la variazione del prezzo si sia concretamente realizzata, in quanto la norma penale tutela anticipatamente l’interesse dell’ordinamento alla corretta formazione del prezzo dello strumento finanziario».

4. Nel trattare le posizioni soggettive, il Tribunale si è soffermato, tra le altre, anche su quella del presidente del collegio sindacale di BMPS al quale veniva contestato – secondo lo schema del concorso omissivo nel reato commissivo di terzi ai sensi dell’art. 40, comma 2, cod. pen. – di non aver impedito la perpetrazione dei delitti di false comunicazioni sociali.

Nel caso di specie – osserva il Collegio – l’obbligo giuridico di impedire l’evento delittuoso (ossia la posizione di garanzia) «trova sicuro ancoraggio nell’art. 149 TUF (sui doveri dei sindaci), a mente del quale il collegio sindacale vigila (per quanto qui rileva): i) sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo; ii) sul rispetto dei principi di corretta amministrazione; iii) sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società per gli aspetti di competenza, del sistema di controllo interno e del sistema amministrativo-contabile nonché sull’affidabilità di quest’ultimo nel rappresentare correttamente i fatti di gestione».

A tali doveri corrispondono penetranti poteri di controllo contemplati dall’art. 151 TUF, tra i quali il fatto che: «i) i sindaci possano, anche individualmente, procedere in qualsiasi momento ad atti di ispezione e di controllo, nonché chiedere agli amministratori notizie, anche con riferimento a società controllate, sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari, ovvero rivolgere le medesime richieste di informazione direttamente agli organi di amministrazione e di controllo delle società controllate; ii) il collegio sindacale possa scambiare informazioni con i corrispondenti organi delle società controllate in merito ai sistemi di amministrazione e controllo ed all’andamento generale dell’attività sociale; può altresì, previa comunicazione al presidente del consiglio di amministrazione, convocare l’assemblea dei soci, il consiglio di amministrazione od il comitato esecutivo ed avvalersi di dipendenti della società per l’espletamento delle proprie funzioni; i poteri di convocazione e di richiesta di collaborazione possono essere esercitati anche individualmente da ciascun membro del collegio (ad eccezione del potere di convocare l’assemblea dei soci, che può essere esercitato da almeno due membri); iii) al fine di valutare l’adeguatezza e l’affidabilità del sistema amministrativo-contabile, i sindaci, sotto la propria responsabilità e a proprie spese, possano avvalersi, anche individualmente, di propri dipendenti e ausiliari».

Quanto all’elemento soggettivo – si legge nella sentenza – come già affermato in tema di amministratori privi di delega (si veda, da ultimo, Cass. pen., sez. V, 27 settembre 2018, n. 42568), «è necessario emerga la prova, da un lato, dell’effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di “segnali di allarme” inequivocabili dai quali desumere l’accettazione del rischio – secondo i criteri propri del dolo eventuale – del verificarsi dell’evento illecito e, dall’altro, della volontà di non attivarsi per scongiurare detto evento».

5. Quanto all’eccezione basata sul fatto che la compresenza del revisore avrebbe potuto esonerare il collegio sindacale dal controllo contabile, il Tribunale ha definite l’asserzione, di massima, corretta, spettando «invero al soggetto chiamato alla revisione legale dei conti verificare la regolare tenuta della contabilità sociale e la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabili nonché la conformità dei bilanci alle risultanze delle predette scritture e alla disciplina di settore».

Tuttavia – si precisa – «residuano ipotesi in cui l’irregolarità contabile (per magnitudo o sospetta singolarità) impone comunque l’attivazione del collegio sindacale, tenuto a vigilare sull’adeguatezza del sistema amministrativo-contabile e relativa affidabilità nel rappresentare correttamente i fatti di gestione (all’esito di un controllo sintetico complessivo su metodi e procedure di redazione del bilancio)».

Come sostenuto da autorevole dottrina, infatti, «risulta configurabile un obbligo di attivazione – la cui inosservanza fonda l’addebito – in presenza di significativi indici di patologia societaria, ovvero quando sia assolutamente palese che la condotta del management contravviene alle regole per una corretta gestione dell’impresa e del relativo patrimonio (come in caso di mancata iscrizione di eventi di rilevante importanza per le sorti della società e di cui i sindaci, in virtù del controllo esercitato, siano a conoscenza o di registrazione di voci chiaramente inattendibili)».

Questa è – ad avviso del Tribunale – la situazione che ricorre nel caso in esame, essendosi in presenza di «una macroscopica alterazione del bilancio (mediante fraudolenta contabilizzazione delle operazioni strutturate), di entità tale da pregiudicare l’affidabilità dell’intero sistema amministrativo-contabile, complessivamente inadeguato a rappresentare correttamente i fatti di gestione».

6. Quanto, infine, alla responsabilità da reato della società imputata ai sensi del D. Lgs. 231/2001 – e, in particolare, al ruolo dell’OdV – il Tribunale ha osservato come «l’Organismo di Vigilanzapur munito di penetranti poteri di iniziativa e controllo, ivi inclusa la facoltà di chiedere e acquisire informazioni da ogni livello e settore operativo della Banca, avvalendosi delle competenti funzioni dell’istituto (così il regolamento del luglio 2012) – ha sostanzialmente omesso i dovuti accertamenti (funzionali alla prevenzione dei reati, indisturbatamente reiterati), nonostante la rilevanza del tema contabile, già colto nelle ispezioni di Banca d’Italia (di cui l’OdV era a conoscenza) e persino assurto a contestazione giudiziaria, con l’incolpazione nei confronti di BMPS (circostanza che disvelava, per l’atteggiamento conservativo della Banca, il patente rischio di ulteriori addebiti, come poi avvenuto)».

Nel periodo d’interesse – prosegue la sentenza – «l’organismo di vigilanza ha assistito inerte agli accadimenti, limitandosi a insignificanti prese d’atto, nella vorticosa spirale degli eventi (dalle allarmanti notizie di stampa sino alla débâcle giudiziaria) che un più accorto esercizio delle funzioni di controllo avrebbe certamente scongiurato. Così, purtroppo, non è stato e non resta che rilevare l’omessa (o almeno insufficiente) vigilanza da parte dell’organismo, che fonda la colpa di organizzazione di cui all’art. 6, d.lgs. n. 231/01».

7. Per completezza, mettiamo a disposizione dei lettori anche le trascrizioni della requisitoria della Procura di Milano (rappresentata dal dott. Stefano Civardi), la quale aveva chiesto al Tribunale l’assoluzione degli imputati con le formule «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato» (per i capi A2 e A3) e «perché il fatto non sussiste» (per i capi A1, B e C)