La Cassazione sulla compatibilità con la Convenzione EDU della pena detentiva per il reato di diffamazione non commesso a mezzo stampa.
[a cura di Lorenzo Roccatagliata]
Cass. pen., Sez. V, Sent. 14 aprile 2021 (ud. 17 febbraio 2021), n. 13993
Presidente Sabeone, Relatore Riccardi
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di cassazione, Sezione quinta, si è pronunciata con riguardo alla compatibilità con la Convenzione EDU, segnatamente con l’art. 10 (libertà di espressione), della pena detentiva per condotte riconducibili al reato di diffamazione.
Il Collegio ha anzitutto ricordato che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, “la giurisprudenza della Corte EDU, sottolineando il ruolo fondamentale della stampa di “cane da guardia” della democrazia (…), e riconoscendo la libertà di espressione come presupposto e chiave di volta di una società democratica, nonché garanzia contro le ingerenze dell’autorità pubblica, nel valutare la proporzione delle misure restrittive, con particolare riferimento alle sanzioni penali, e pur riconoscendone l’astratta compatibilità con la libertà di espressione, ha da tempo affermato (…) che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, può essere compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’art. 10 CEDU soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza; al di fuori di tali ipotesi, infatti, la stessa previsione di una pena detentiva ha un effetto dissuasivo (‘chilling effect’) nei confronti del giornalista nell’esercizio della libertà di espressione garantita dall’art. 10 CEDU”.
In merito è opportuno richiamare le sentenze della Corte EDU Sallusti c. Italia, Ricci c. Italia e Belpietro c. Italia.
Come è noto, il tema – approfondito in questa Rivista da Margherita Pisapia e Carlotta Cherchi – è inoltre approdato alla Corte costituzionale, che, con l’ordinanza 9-26 giugno 2020, n. 132 ha rinviato di un anno la trattazione della questione per consentire al legislatore di approvare una nuova disciplina.
Nella sentenza in epigrafe, il Collegio ha ricordato che “proprio richiamando la decisione costituzionale, la Corte di Cassazione ha recentemente affermato che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, spetta al giudice di merito accertare la ricorrenza dell’eccezionale gravità della condotta diffamatoria attributiva di un fatto determinato – che implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio -, che, secondo un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, sola giustifica l’applicazione della pena detentiva”.
Ciò premesso, la Corte ha affrontato “la questione se la pena detentiva debba ritenersi sproporzionata anche nei casi di condanna per diffamazione commessa non con il mezzo della stampa, o comunque non nell’esercizio dell’attività̀ giornalistica e del connesso diritto di cronaca e di critica”.
Sul punto, il Collegio ha ricordato che la giurisprudenza europea ha attribuito rilievo al rischio di effetto dissuasivo non solo nell’esercizio del diritto-dovere di cronaca, ma “anche in relazione all’esercizio del diritto di critica nei confronti degli organi giudiziari, come nel caso Morice c. Francia, in cui la Grande Chambre è intervenuta sul tema dei limiti del diritto di critica dell’avvocato nei confronti dell’operato di un magistrato (…) affermando che, se da un lato l’esercizio legittimo del diritto di critica non può estendersi fino a minare l’immagine di imparzialità del sistema giudiziario e dunque la fiducia in esso dei consociati, dall’altro lato la magistratura rappresenta un’istituzione fondamentale dello Stato, sicché il diritto di critica nei confronti dell’operato dei suoi esponenti corrisponde ad un interesse pubblico, e gode di limiti più ampi di quello esercitabile nei confronti dei normali cittadini, purché la critica non si traduca in ‘attacchi gravemente lesivi e infondati’”.
Peraltro, ha rilevato la Corte, “anche l’ordinanza (…) della Corte Costituzionale ha evidenziato la necessità di una rimeditazione del bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione che tenga conto anche ‘della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni’, e degli ‘effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet’. In altri termini, l’ordinanza ‘monito’ non sembra circoscrivere l’opportunità di una rimeditazione della necessità della pena detentiva ai soli casi di esercizio dell’attività giornalistica, estendendo la valutazione anche ai casi di rapida e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks, come nella fattispecie in esame”.
Alla luce di tutte tali considerazioni, dunque, la Corte ha ritenuto che “l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per il reato di diffamazione connesso ai mezzi di comunicazione (nella specie, Internet), anche se non commesso nell’ambito dell’attività giornalistica, possa essere compatibile con la libertà di espressione garantita dall’art. 10 CEDU soltanto in circostanze eccezionali, qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza”.