La Cassazione sulla configurabilità del concorso formale tra peculato e bancarotta distrattiva.
[a cura di Lorenzo Roccatagliata]
Cass. pen., Sez. VI, Sent. 16 aprile 2021 (ud. 5 novembre 2020), n. 14402
Presidente Fidelbo, Relatore Silvestri
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di cassazione, Sezione sesta, si è pronunciata sul rapporto tra i reati di peculato (art. 314 c.p.) e di bancarotta fraudolenta per distrazione (art. 216, comma 1, n. 1, L.f.).
Nella sua qualità di amministratore unico di una società pubblica (e, in tale veste, ricoprendo il ruolo di incaricato di pubblico servizio), l’imputato era stato condannato:
- per il reato di peculato, perché, avendo per ragioni del suo incarico la disponibilità di somme della società provenienti dai ricavi gestionali della stessa, si era appropriato di somme della società, mediante l’emissione a sé stesso di numerosi assegni bancari ed il mancato versamento delle somme di denaro contante derivanti dagli incassi da una determinata farmacia comunale;
- per il reato di bancarotta distrattiva, per avere con la condotta appena indicata distratto somme della società, causando in tal modo un grave dissesto economico, sfociato nella sentenza dichiarativa di fallimento.
Fra i motivi di gravame, il ricorrente lamentava violazione di legge: sul presupposto che la dichiarazione di fallimento costituisca una condizione obiettiva di punibilità, la sentenza impugnata sarebbe stata viziata – in ragione dei principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 200 del 2016 (pubblicata in questa Rivista, ivi) – nella parte in cui ha ritenuto non violato il bis in idem fra i reati di peculato e bancarotta fraudolenta per distrazione. Sosteneva infatti il ricorrente che il fatto storico, individuato nei suoi elementi materiali di condotta – nesso causale ed evento e depurato da elementi valoristici relativi agli interessi protetti dalle norme, sarebbe lo stesso nel peculato e nella bancarotta fraudolenta per distrazione.
La Corte ha ritenuto il motivo infondato.
Anzitutto, il Collegio ha rilevato che “i riferimenti del ricorrente alla violazione del bis in idem sono impropri. Nella fattispecie, non si tratta infatti di un nuovo esercizio dell’azione penale in ordine allo stesso fatto storico già giudicato e, dunque, alla operatività della generale preclusione processuale di cui è espressione l’art. 649 cod. proc. pen., ma di un processo oggettivamente cumulativo in cui all’imputato sono stati contestati più reati che, secondo una possibile ricostruzione, sarebbero tra loro in concorso formale. Il richiamo alla preclusione processuale è inconferente perché il Pubblico Ministero non ha differito nel tempo l’esercizio dell’azione penale in ordine allo stesso fatto nell’ambito di diversi e separati procedimenti, ma ha esercitato il potere di azione in un unico procedimento, contestando più reati in concorso formale tra loro”.
Per tale ragione, secondo la Corte, “quello che deve essere verificato è allora se nella specie sia configurabile il concorso formale tra il reato di peculato e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, se cioè tra le norme in questione vi sia un rapporto di specialità (artt. 15 e 84 cod. pen.), ovvero se esse si pongano in concorso apparente, in quanto un reato assorbe interamente il disvalore dell’altro”.
Preliminarmente, in tema di bancarotta, il Collegio ha aderito all’orientamento più recente, secondo cui “la dichiarazione di fallimento costituisce una condizione obiettiva di punibilità non collegata eziologicamente con la condotta dell’agente ed estranea al coefficiente soggettivo che anima quest’ultimo; l’agente deve solo prefigurarsi la probabile idoneità della sua condotta ad incidere negativamente sulla consistenza della garanzia patrimoniale a disposizione dei creditori, senza prevedere né volere il dissesto e men che meno il fallimento” (si veda sul punto, in particolare, Cass. pen., Sez. V, n. 13910/17).
Inoltre, ha ricordato la Corte che “qualora, prima della soglia temporale di rilevanza penale costituita dalla dichiarazione di fallimento, la depressione della garanzia patrimoniale sia stata ripianata a mezzo di un’attività integralmente ripristinatoria, la valenza penale della condotta non si concretizza, come può evincersi dalle pronunzie che si sono occupate del tema della cd. bancarotta riparata”.
Sulla base di questi principi, la Corte ha disegnato la fattispecie come “un reato di pura condotta, di pericolo, che si consuma se ed in quanto si verifichi la condizione di obiettiva di punibilità, con una condotta che può essere riparata e che sotto il profilo del dolo deve presentare ‘indici di fraudolenza’; un reato che tutela l’interesse dei creditori sociali a soddisfarsi sui beni del fallito in virtù del fatto che il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni”.
Con riguardo al peculato, i Giudici hanno osservato che esso “si distacca e specifica nettamente dalla figura di appropriazione indebita e dal reato di bancarotta fraudolenta per distrazione non tanto per il soggetto espropriato del bene e per la natura di quest’ultimo, atteso il riferimento normativo alla ‘altruità’ del bene oggetto materiale del peculato, quanto, piuttosto, a) per la particolare qualifica del soggetto attivo; b) per il bene giuridico tutelato; c) per le modalità di aggressione al bene giuridico. Se nell’appropriazione indebita il bene giuridico è di sicura natura economico-patrimoniale e se per la bancarotta rileva l’interesse dei creditori sociali a soddisfarsi sui beni del fallito, nel peculato la collocazione e la severità della sanzione impongono chiaramente il riferimento alla tutela del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 97 Cost., inteso non solo come il bene giuridico di categoria dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, ma come lo specifico bene giuridico tutelato da ciascuno dei delitti in questione, i quali si caratterizzano per ledere il buon funzionamento della Pubblica amministrazione a causa dalla infedeltà del pubblico ufficiale e dell’abuso della posizione pubblica (funzioni, qualità, poteri)”.
Più in dettaglio, ha osservato la Corte, “il peculato non tutela solo il patrimonio della Pubblica Amministrazione o di terzi, ma la legalità, l’efficienza, l’imparzialità della pubblica amministrazione, la fedeltà del pubblico ufficiale (…). Ciò che assume rilevo nella fattispecie, la connota e la caratterizza in termini pubblicistici è il presupposto della condotta, costituito dalla disponibilità in capo all’agente per ragioni d’ufficio della cosa oggetto di appropriazione; si tratta di una peculiare modalità di aggressione del bene, costituita dallo sfruttamento del rapporto tra agente pubblico e cosa”.
Per conseguenza, il peculato consiste in “un reato proprio, istantaneo, in cui la condotta si consuma nel tempo e nel luogo in cui si verifica l’appropriazione del denaro o della cosa mobile, in cui l’appropriazione implica una dipendenza funzionale del possesso dall’esercizio della pubblica funzione o dalla prestazione del pubblico servizio”.
Per queste ragioni “il peculato si differenzia rispetto alla bancarotta fraudolenta prefallimentare per distrazione quanto: a) al soggetto attivo; b) all’interesse tutelato, nel senso che la bancarotta non assorbe ed esaurisce affatto l’offensività del peculato; c) per le modalità di aggressione al bene giuridico tutelato, nel senso che nel peculato, a differenza della bancarotta, non ogni condotta ‘appropriativa’ assume rilievo; d) per la mancanza di una condizione di punibilità che, nel reato fallimentare, rende solo eventuale che la condotta appropriativa sfoci in bancarotta; e) al tempo in cui il reato si consuma, essendo il peculato un reato istantaneo rispetto al quale non rileva, a differenza della bancarotta, la “riparazione’”.
Così, la Corte ha ritenuto ammissibile il concorso formale tra peculato e bancarotta fraudolenta per distrazione.