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Principio di legalità e divieto di analogia in materia penale: depositata la sentenza n. 98/2021 della Corte Costituzionale (in tema di atti persecutori e maltrattamenti in famiglia)

Corte Costituzionale, 14 maggio 2021, sentenza n. 98
Presidente Coraggio, Relatore Viganò

Segnaliamo ai lettori il deposito della sentenza n. 98 del 2021, con la quale la Corte Costituzionale, nel dichiarare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 521 c.p.p. sollevate dal Tribunale di Torre Annunziata, ha ribadito l’importanza del principio di legalità e del divieto di analogia in materia penale con riferimento, nello specifico, al rapporto tra i reati di in tema di atti persecutori e maltrattamenti in famiglia.

Ripotiamo di seguito il testo del comunicato stampa pubblicato dalla Corte:

Il divieto di applicazione analogica della legge penale a sfavore del reo “costituisce un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo della legge”.
È quanto si legge nella sentenza n. 98 (redattore Francesco Viganò), depositata oggi, con la quale la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Torre Annunziata.
Il Tribunale stava celebrando un processo contro un imputato accusato dal pubblico ministero di atti persecutori (il cosiddetto stalking) per una serie di condotte abusive compiute nei confronti di una donna con cui intratteneva da qualche mese una relazione affettiva, e che frequentava abitualmente la sua casa familiare.
Al termine del dibattimento, il giudice aveva prospettato alle parti la possibilità di una riqualificazione dei fatti contestati all’imputato nel più grave delitto di maltrattamenti in famiglia. Ciò sulla base di un orientamento della Corte di Cassazione che considera integrato questo reato in presenza di condotte maltrattanti compiute in un “contesto affettivo protetto”, caratterizzato da “legami forti e stabili tra i partner” e dalla “condivisione di progetti di vita”.
A questo punto l’imputato aveva chiesto di essere ammesso al giudizio abbreviato, e di godere così del relativo sconto di un terzo della pena in caso di condanna. Il giudice, preso atto che il codice di procedura penale non consente di chiedere il rito abbreviato al termine del dibattimento, aveva tuttavia ritenuto che, in un caso come questo, una simile preclusione fosse incompatibile con i principi di eguaglianza e del giusto processo, e dello stesso diritto di difesa. Il mutamento prospettato della qualificazione giuridica del fatto comporta infatti, secondo il Tribunale, uno stravolgimento dei rischi sanzionatori che l’imputato aveva considerato con il proprio difensore, nel momento in cui aveva deciso di affrontare il dibattimento anziché chiedere di essere giudicato con rito abbreviato o di patteggiare la pena.
Conseguentemente, il Tribunale ha sollevato questione di costituzionalità mirante, appunto, a consentire all’imputato, di fronte alla prospettazione di una possibile riqualificazione giuridica del fatto contestatogli, di optare per il rito abbreviato.
La Corte costituzionale non ha esaminato nel merito la questione, ritenendo che il Tribunale rimettente non avesse adeguatamente motivato sulla sussistenza, nel caso concreto, dei presupposti del mutamento della qualificazione giuridica del fatto contestato dal pubblico ministero.
In proposito, la Corte ha anzitutto sottolineato che il reato di maltrattamenti in famiglia presuppone, per quanto qui rileva, che le condotte abusive siano compiute nei confronti di una persona della stessa “famiglia”, oppure di una persona “convivente”; e che, invece, il reato di atti persecutori aggravati prevede che le condotte vengano compiute nei confronti di persona che sia o sia stata legata all’autore da una “relazione affettiva”.
Ha quindi rammentato il fondamentale canone interpretativo in materia penale, basato sull’art. 25 secondo comma Cost. e rappresentato dal divieto di applicare la legge oltre i casi da essa espressamente stabiliti. Questo divieto impedisce – ha proseguito la Consulta – di riferire la norma a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei significati letterali delle espressioni utilizzate dal legislatore. Ciò a garanzia sia del principio della separazione dei poteri, che assegna al legislatore – e non al giudice – l’individuazione dei confini delle figure di reato; sia della prevedibilità per il cittadino dell’applicazione della legge penale, che sarebbe frustrata laddove al giudice fosse consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello desumibile dalla sua immediata lettura.
La Corte ha evidenziato che il giudice del procedimento principale non aveva spiegato le ragioni per le quali aveva ritenuto che, a fronte di una relazione affettiva durata qualche mese e caratterizzata da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro, la vittima potesse essere considerata, alla stregua del linguaggio comune, come persona già appartenente alla medesima “famiglia” dell’imputato, ovvero con lui “convivente”.
In assenza di questa dimostrazione, ha concluso la Corte, l’applicazione del reato di maltrattamenti in famiglia anziché di quello di atti persecutori costituirebbe il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma penale, come tale vietata dall’articolo 25 secondo comma della Costituzione.

Redazione Giurisprudenza Penale

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