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Il necessario rinvio dell’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza: verso una riforma organica che non può tralasciare i reati fallimentari, la normativa regolamentare del credito e l’istituto dell’Amministrazione Straordinaria

in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 6 – ISSN 2499-846X

di Luca Faustini, Corrado Ferriani e Carlo Alberto Giovanardi

Prima di entrare nel merito di alcune tra le principali criticità del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (il “Codice”), è opportuno svolgere alcune considerazioni dalle quali riteniamo non si possa prescindere nella legittima aspettativa di un impianto normativo coerente con l’intendimento di protezione del valore dell’impresa in crisi (potenzialmente reversibile), nell’interesse dei creditori, del livello occupazionale e di tutti gli stakeholder.

La normativa, destinata alla prevalente applicazione sulla piccola e media impresa (che rappresenta la parte più significativa del tessuto imprenditoriale italiano), non può ignorare la struttura patrimoniale di un sistema economico che ha risentito (i) di una spinta verso la finanziarizzazione, validata da principi contabili, la cui adozione apre (a dismisura) la forbice tra valori in continuità e valori di liquidazione, e (ii) dello snellimento delle strutture organizzative, indotto da misuratori premianti il contenimento dei costi e dall’attitudine di una larga fascia dell’imprenditoria domestica ad affidarsi al proprio intuito più che a strumenti di controllo di gestione. A ciò si aggiunge il fisiologico tempo di metabolizzazione della necessità di un’adeguata implementazione della disciplina degli assetti interni.

In antitesi con il favor per le soluzioni negoziali, caratteristico delle modifiche introdotte tra il 2005 ed il 2012 nel R.D. 267/1942 (la “Legge Fallimentare”), l’impianto generale del Codice è caratterizzato da un ‘ritorno’ alla sfiducia (già leggibile nella prima controriforma del 2015). Ne è prova concreta la spinta verso soluzioni sottoposte alla prevalente gestione degli organi giurisdizionali diretti (Tribunali) o indiretti (commissari, curatori e ausiliari). Ciò determina un inevitabile irrigidimento degli strumenti di soluzione della crisi, sia sull’asse temporale, sia sul piano dei contenuti, con una prevedibile significativa riduzione delle concrete probabilità di superamento della crisi, senza che siano stati previsti e introdotti strumenti di maggiore efficacia nella tutela dell’impresa e/o del credito nel contesto giudiziale.

Il Codice ignora che la crisi sia una ‘questione’ che tocca gli aziendalisti prima dei giuristi ed è largamente improntato a una gestione difficilmente compatibile con le esigenze derivanti dalle problematiche concrete delle aziende in difficoltà. Esso non presenta flessibilità e non propone strumenti adeguati (o competitivi) di gestione (e di temporanea agevolazione) del processo di risanamento. Obbliga gli imprenditori ad adire prima (nel c.d. early stage) gli organismi di composizione della crisi (che, così come previsti, appaiono significativamente inadeguati  agli obiettivi che originariamente si intendevano perseguire) e poi a doversi confrontare con la accresciuta rigidità che caratterizza le procedure concorsuali giudiziarie in senso stretto. Non considera inoltre le incognite derivanti dall’applicazione di talune previsioni specifiche che rappresentano, sotto ogni profilo, un passo indietro rispetto agli obiettivi di modernizzazione in chiave aziendalista degli strumenti di gestione e superamento della crisi (basti dire del vaglio giudiziale di “fattibilità economica” del concordato).

Il Codice, nella versione attuale, non offre alcuno strumento per una effettiva e concreta capacità di rilevazione anticipata delle situazioni di crisi, che, ove incoraggiata su basi di effettiva e funzionale valorizzazione degli strumenti di rilevazione preventiva, costituirebbe un significativo elemento di miglioramento della qualità del tessuto imprenditoriale italiano e del ‘sistema’ economico giuridico nel suo complesso, agevolando (e premiando) l’introduzione di sistemi di pianificazione, di monitoraggio interno e di controllo di gestione – attualmente circoscritti all’art. 2086 cod. civ.. Tali strumenti favorirebbero un miglioramento tecnico generale e, in ultima analisi, parrebbero gli unici, ove correttamente implementati, in grado di esprimere, con una reale portata anticipatoria, elementi di allerta e di attenzione specifici.

Nonostante i vari tentativi di renderli efficienti, i c.d. indicatori della ‘crisi’, così come previsti, sembrano fortemente inadeguati. Da un lato, essi rappresentano situazioni che danno evidenza della conclamata sussistenza dello stato di crisi (e non costituiscono elementi di ‘allerta’ preventiva). Dall’altro, sembrano intrinsecamente inappropriati, posto che tendono a rendere omogenei elementi di merito che non colgono le peculiarità delle singole imprese, delle relative strutture patrimoniali e della varianza delle caratteristiche del ciclo economico finanziario delle imprese. L’impianto oggi prospettato paventa il rischio dell’applicazione di indicatori” standardizzati, asettici e teorici, incapaci di cogliere le caratteristiche dell’azienda e della tipologia di attività, rimandando la definizione della fase di crisi non a un’anamnesi puntuale e ‘personalizzata’ dell’azienda, ma a trigger generici e potenzialmente fuorvianti e comunque tutt’altro che anticipatori. Non solo. Sono stati elaborati degli studi che, simulando l’applicazione delle misure di allerta e delle c.d. segnalazioni (tanto più nel contesto degli effetti della pandemia in corso), dimostrano che la maggioranza del tessuto produttivo nazionale finirebbe per essere interessato dall’applicazione delle norme del Codice, con conseguenze che è difficile stimare in misura puntuale, ma che certamente determinerebbero effetti rilevanti per tutto il sistema economico italiano. E ciò è vero, addirittura, già prima di considerare gli effetti procurati sui risultati delle aziende dalla pandemia da Covid-19.

Il principio di privatizzazione e la prospettiva aziendalistica della gestione della crisi andrebbero rafforzati, non indeboliti, consegnando alla funzione giurisdizionale soltanto i casi particolarmente problematici e caratterizzati da profili effettivamente patologici. Ciò richiede una radicale inversione di prospettiva rispetto al Codice, restituendo alle competenze aziendaliste tematiche che pare opportuno assurgano a rilevanza giudiziale solo ai fini della protezione o nel caso di degenerazione.

Altro profilo di rilevanza cruciale è rappresentato dalla circostanza che il Codice è stato elaborato senza tenere in alcuna considerazione l’esigenza sistematica di coordinamento con la recente normativa bancaria, imposta a tutti gli Istituti di credito dalle autorità di vigilanza italiana (Banca d’Italia) e europea (Banca Centrale Europea), in materia di crediti verso imprese in crisi (UTP e Forborne) e di misure di ‘allerta’.

La data di entrata in vigore del Codice è ormai prossima e occorre interrogarsi sul rischio, tutt’altro che improbabile, di trovarsi al cospetto di un insuccesso, con effetti non controllabili sul tessuto imprenditoriale italiano, per evitare il quale sarebbe opportuno approntare una normativa del diritto concorsuale attuale, in grado cioè di cogliere la dinamicità dell’impresa e degli strumenti di cui necessita per fronteggiare in modo efficiente una possibile fase di crisi, che comprenda, sin da subito, oltre che l’esigenza di coordinamento con la normativa creditizia, la riforma dei reati fallimentari e, auspicabilmente, dell’Amministrazione Straordinaria.  

Come citare il contributo in una bibliografia:
L. Faustini – C. Ferriani – C. A. Giovanardi, Il necessario rinvio dell’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza: verso una riforma organica che non può tralasciare i reati fallimentari, la normativa regolamentare del credito e l’istituto dell’Amministrazione Straordinaria, in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 6