ARTICOLIDIRITTO PENALEResponsabilità degli entiTesi di laurea

La “rieducazione” dell’ente: dai modelli di giustizia negoziata di common law allo strumento della messa alla prova nel sistema italiano

Prof. relatore: Dott.ssa Rossella Sabia

Ateneo: Luiss – Master Universitario di Secondo Livello di Diritto penale di impresa

Anno accademico: 2019/2020

Il legislatore (delegato) italiano, al momento dell’individuazione del paradigma al quale legare la disciplina della responsabilità (para-)penale degli enti, attraverso il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ha mantenuto il convincimento secondo cui il rapporto di immedesimazione organica serva, esclusivamente, a collegare il reato commesso dall’individuo all’ente su un piano oggettivo. Ha ritenuto, invece, che non siano riferibili direttamente all’ente anche i requisiti di carattere psicologico dell’individuo. Ha, infatti, impegnato molte energie per tentare di costruire un modello di responsabilità degli enti che andasse oltre un mero recepimento della teoria organicistica, al fine di predisporre un sistema che si sottraesse a ogni censura rispetto al principio costituzionale della responsabilità colpevole.

La struttura dei presidi preventivi è definita dagli artt. 6 e 7 del Decreto: si è ancorata la responsabilità dell’ente, al fine di rispettare l’art. 27 della Cost., a un presupposto ulteriore rispetto alla commissione di un fatto di reato da parte di un autore-persona fisica suo agente (nel suo interesse o vantaggio). Si è tentato di ancorare la responsabilità dell’ente a una colpevolezza sua propria, ancorché intesa in senso normativo. È necessario poter muovere direttamente all’ente un rimprovero, tale per cui si possa considerare il reato espressione di una politica aziendale o deviante, o frutto di una sua colpa in organizzazione.

Il criterio dell’immedesimazione organica sarebbe servito solo a superare il problema dell’incapacità di azione (l’ente è capace di azione perché agisce tramite i suoi organi individuali) ma non anche ‘l’incapacità’ di colpevolezza. Per superare questo (ulteriore) ostacolo è necessario ricorrere alla colpa di organizzazione. Cosicché risulta configurabile un coefficiente soggettivo ulteriore, e diverso, rispetto a quello individuale. Come dire che la colpa della persona giuridica attiene alla sua struttura organizzativa, e l’illecito dell’ente non si esaurisce nel reato realizzato dall’autore-persona fisica, ma presuppone a monte una condotta colposa di omessa organizzazione.

Sembra plausibile ritenere che il fatto tipico di cui l’ente è chiamato a rispondere debba essere individuato proprio nel difetto di organizzazione. La colpa in organizzazione non è solo una forma di responsabilità, ma è anche un fatto autonomo rispetto al reato della persona fisica.

Questa opzione politico-ideologica si rende evidente attraverso la previsione una “colpevolezza di impresa”, cioè l’imposizione (o comunque l’incentivo all’adozione) di “modelli di organizzazione e gestione”. L’ascrizione della responsabilità all’ente sul versante soggettivo andrebbe ancorata – fondamentalmente – alla mancata adozione ed efficace attuazione, prima della commissione del reato, di modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Il legislatore delegato ha così specificato l’apporto “personale” dell’ente rispetto al fatto di reato.

Dunque, sulla mancata o inadeguata organizzazione si fonda la colpevolezza dell’impresa, perché è sull’ente che grava, in quanto tale, l’onere di dotarsi di un modello al fine di prevenire i reati per cui è prevista la sua potenziale responsabilità. Il mancato adempimento di tale onere è addebitabile direttamente all’ente, a un deficit della sua organizzazione, o alla sua superficialità rispetto all’esigenza di evitare, o contenere, il rischio di realizzazione di fatti di reato (- presupposto).

Si esclude che l’adozione di un modello organizzativo costituisca un obbligo giuridico, configurandosi, piuttosto, quale onere organizzativo ed economico di cui l’ente si fa carico, sia per prevenire i rischi di reato, sia per fruire di taluni benefici, qualora incolpato di un illecito. A fronte della non obbligatorietà, la mancata adozione di un modello vale a integrare quella “rimproverabilità”, e a integrare, dunque, la fattispecie sanzionatoria «costituita dall´omissione delle previste doverose cautele organizzative e gestionali idonee a prevenire talune tipologie criminose».

In sintesi, se si è disposti a prendere sul serio il paradigma d’imputazione in esame bisogna “rassegnarsi” ad ammettere che l’ente collettivo riveste anche i coefficienti psicologico-soggettivi necessari affinché un reato possa essere considerato suo proprio nella totalità degli elementi costitutivi.