Rigetto della richiesta di abbreviato condizionato e possibilità di riproporla al giudice del dibattimento nella fase delle questioni preliminari: la Corte Costituzionale (con sentenza n. 127 del 2021) dichiara le questioni inammissibili
[a cura di Guido Stampanoni Bassi]
Corte Costituzionale, 21 giugno 2021, sentenza n. 127
Presidente Coraggio, Relatore Viganò
Come avevamo anticipato, era stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 438 comma 6 del codice di procedura penale e dell’art. 458 comma 2 del codice di procedura penale (che implicitamente richiama il primo), per contrasto con gli articoli 24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono che, nel caso in cui il giudice per le indagini preliminari rigetti la richiesta di giudizio abbreviato condizionato, l’imputato possa tempestivamente, nella fase dedicata alle questioni preliminari, riproporre la richiesta di rito alternativo al giudice del dibattimento, e che questo possa sindacare la decisione del giudice per le indagini preliminari ed ammettere il rito chiesto dall’imputato.
Il 21 giugno 2021 è stata depositata la sentenza numero 127 del 2021, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato le questioni inammissibili.
Sulla disciplina del cd. giudizio abbreviato “condizionato” – si legge nella sentenza – «è intervenuta la sentenza n. 169 del 2003 di questa Corte, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma 6 nella parte in cui non prevede che, in caso di rigetto della richiesta di giudizio abbreviato subordinata ad una integrazione probatoria, l’imputato possa rinnovare la richiesta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado e il giudice possa disporre il giudizio abbreviato. In tal modo, la decisione del GIP di rigettare la richiesta di rito abbreviato condizionata è stata assoggettata al successivo sindacato giurisdizionale del giudice del dibattimento, il quale potrà così rivalutare – prima dell’apertura del dibattimento stesso – se sussistano le condizioni indicate dall’art. 438, comma 5, cod. proc. pen. per definire il processo con il rito abbreviato: soluzione che questa Corte ha ritenuto imposta da ragioni di tutela del principio di eguaglianza e del diritto di difesa dell’imputato, sottolineandone al contempo la funzionalità all’obiettivo – esso pure di rilievo costituzionale (art. 111, secondo comma, Cost.) – di risparmio di tempo e risorse per la giurisdizione. La medesima disciplina si applica, mutatis mutandis, nell’ipotesi in cui il rinvio a giudizio dell’imputato sia disposto mediante decreto di giudizio immediato ex art. 455 cod. proc. pen., come accaduto nel processo a quo».
Entrambe le disposizioni incise dalla sentenza n. 169 del 2003 – prosegue la Corte – «sono state oggetto di modifiche ad opera di leggi successive, le quali non hanno espressamente incorporato nei testi risultanti dalle modifiche le addizioni operate da questa Corte ai testi originari». Se, da un lato, è vero che «una espressa incorporazione di tali addizioni sarebbe stata maggiormente funzionale a garantire la certezza del diritto, in una materia così densa di implicazioni per i diritti fondamentali come il processo penale», dall’altro, «si deve escludere – contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo – che le modifiche in parola abbiano inteso vanificare gli effetti della sentenza n. 169 del 2003, la quale resta dunque pienamente operante con riferimento tanto all’art. 438, comma 6, quanto all’art. 458, comma 2, cod. proc. pen.».
Il silenzio del legislatore «non può essere interpretato come espressivo di una presunta volontà del legislatore di derogare al decisum della sentenza n. 169 del 2003. E ciò in quanto la legge modificatrice – nonostante la proclamata volontà di “sostituire” la disposizione previgente – non ha in effetti abrogato la norma espressa da tale disposizione, ma si è limitata ad integrarla, aggiungendo alla fattispecie processuale già prevista dal vecchio testo dell’art. 438, comma 6, cod. proc. pen. e rimasta inalterata nella nuova formulazione (la riproposizione della richiesta di giudizio abbreviato condizionato già respinta dal GIP all’inizio dell’udienza preliminare) una nuova fattispecie processuale (la riproposizione della richiesta di giudizio abbreviato già dichiarata inammissibile dallo stesso GIP all’inizio dell’udienza preliminare, per essere il reato contestato punito con l’ergastolo), assoggettando entrambe alla medesima disciplina. L’aggiunta in parola non fa venir meno la continuità normativa relativa alla fattispecie già esistente, né – conseguentemente – l’addizione operata, rispetto a tale fattispecie, dalla sentenza n. 169 del 2003, che ha esteso la possibilità per l’imputato di riproporre la richiesta di giudizio abbreviato condizionato anche al giudice del dibattimento, oltre che al GIP nel corso dell’udienza preliminare».
Mutuando qui la nota terminologia ulpianea – precisa la Corte – «la legge n. 33 del 2019 non ha, insomma, operato una “rimozione” (abrogatio) della norma previgente, bensì una sua mera “modificazione aggiuntiva” (subrogatio), lasciandone inalterato il contenuto precettivo relativamente alla parte non modificata, e assicurando così la perdurante efficacia, senza alcuna soluzione di continuità, del dispositivo della sentenza n. 169 del 2003, che su quella norma si innestava. Del resto – si conclude – «l’opposta soluzione ermeneutica, non solo sarebbe incompatibile con gli artt. 3 e 24 Cost. per le ragioni già chiarite dalla sentenza n. 169 del 2003, ma si scontrerebbe frontalmente con l’art. 136 Cost., violando il giudicato costituzionale (ciò che in effetti accadde nel caso deciso dalla sentenza n. 922 del 1988, con la quale fu dichiarata, per tale assorbente ragione, l’illegittimità costituzionale di una disposizione di diritto processuale penale che aveva riprodotto una identica disposizione già dichiarata incostituzionale con sentenza additiva, il cui decisum il legislatore non aveva tenuto in alcun conto)».
Nella sentenza la Corte si è anche soffermata sul provvedimento con il quale il Presidente della sezione procedente del Tribunale di Lecce aveva disposto la prosecuzione del giudizio a quo nonostante la pendenza della questione di costituzionalità, «attesa l’esigenza di anticipare la trattazione» del giudizio a quo, «anche in considerazione dello stato cautelare cui è attualmente sottoposto l’imputato» e «considerato che la sollevata questione di legittimità costituzionale può ritenersi superata dalla già intervenuta pronuncia sulla medesima questione […] con sent. Corte Cost. n. 169/2003, sulla cui portata non ha inciso la novella relativa all’art. 438 c.p.p. recata dalla L. n. 33/2019, inerente il diverso fenomeno dell’inammissibilità della richiesta, non in rilievo nel caso di specie».
Sebbene tale decisione non faccia venir meno la perdurante rilevanza delle questioni prospettate dal Collegio rimettente – dovendo la stessa essere vagliata ex ante, con riferimento al momento della prospettazione delle questioni – la Corte ha ritenuto di «non potersi esimere dal rilevare come detto provvedimento [ossia, la decisione del Presidente della sezione procedente del Tribunale di Lecce di disporre la prosecuzione della trattazione del processo] contrasti con quanto disposto dall’art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) e ciò impone la trasmissione degli atti del presente giudizio al Procuratore generale presso la Corte di cassazione per gli eventuali provvedimenti di competenza».