Caso Vannini: depositate le motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione (Bis). Escluso il concorso anomalo per i familiari.
[a cura di Guido Stampanoni Bassi]
Cassazione Penale, Sez. V, 19 luglio 2021 (ud. 3 maggio 2021), n. 27905
Presidente Bruno, Relatore Miccoli
1. Pubblichiamo, in considerazione dell’interesse mediatico della vicenda, le motivazioni della sentenza con cui la quinta sezione penale della Corte di Cassazione si è pronunciata sulla vicenda relativa all’omicidio di Marco Vannini avvenuto a Ladispoli il 18 maggio 2015.
Ricordiamo che si tratta della seconda sentenza della Corte di Cassazione, la quale si è in questa occasione pronunciata a seguito dei ricorsi presentati avverso la sentenza con cui la Corte di Assise di Appello di Roma, giudicando in sede di rinvio a seguito della prima pronuncia della Corte di Cassazione, aveva qualificato la condotta contestata all’imputato Antonio Ciontoli nei termini di omicidio volontario nella forma del dolo eventuale e aveva riconosciuto la responsabilità degli altri imputati (Federico Ciontoli, Martina Ciontoli e Maria Pezzillo) ai sensi dell’art. 116 c.p. (cd. concorso anomalo).
2. In punto di diritto, la Corte si è soffermata anzitutto sulla posizione di garanzia – e, in particolare, su quella posizione che viene definita “di protezione” – o ritenendo manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 40, secondo comma, cod. pen. in relazione agli articoli 589 e 575 cod. pen., che alcune difese avevano chiesto di sollevare.
Non è superfluo rammentare – si legge nella decisione – «che la responsabilità ex art. 40, comma secondo, cod. pen. presuppone la titolarità di una posizione di garanzia nei confronti del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice violata, dalla quale deriva l’obbligo di attivarsi per la salvaguardia di quel bene; obbligo che si attualizza in ragione del perfezionarsi della c.d. situazione tipica. In presenza di tali condizioni, la semplice inerzia assume significato di violazione dell’obbligo giuridico (di attivarsi per impedire l’evento) e l’esistenza di una relazione causale tra omissione ed evento consente di ascrivere il reato secondo la previsione dell’articolo 40, comma secondo, cod. pen.».
Nelle precedenti sentenze – prosegue la Corte – «la fonte della posizione di garanzia rivestita da tutti gli imputati è stata sostanzialmente individuata in una assunzione volontaria rispetto a Marco Vannini, rimasto ferito nella loro abitazione, di un dovere di protezione e, quindi, di un obbligo di impedire conseguenze dannose per i suoi beni, anzitutto la vita».
Si tratta di principi più volte ribaditi dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha avuto modo già di rilevare che «altra fonte dell’obbligo di garanzia è quello dell’assunzione volontaria ed unilaterale dei compiti di tutela, al di fuori di un preesistente obbligo giuridico, fondato sul presupposto dell’assunzione di fatto dell’onere, della presa in carico del bene che ne accresce le possibilità di salvezza. Tale ambito ricorre in presenza di un’iniziativa spontanea nell’assunzione dei compiti di tutela, come nei casi dei vicini di casa che, in assenza dei genitori, si prendono cura del bambino; dei volontari di pronto soccorso che, avvertiti, soccorrono il ferito in stato d’incoscienza; si tratta di obbligazione giuridica connessa all’assunzione unilaterale del ruolo di garante».
Nella sentenza rescindente – si legge nella pronuncia – «si è sottolineato come la “sequenza di azioni” che ha caratterizzato la vicenda rende chiaro che Antonio Ciontoli e i suoi familiari assunsero volontariamente rispetto a Marco Vannini, rimasto ferito nella loro abitazione, un dovere di protezione e quindi un obbligo di impedire conseguenze dannose per i suoi beni, anzitutto la vita. […] In questo senso deve leggersi il riferimento della sentenza impugnata al fatto che i figli e la moglie di Antonio Ciontoli, “soggetti istruiti, maggiorenni…” furono “… pienamente consapevoli della reale gravità dell’accaduto sin quasi dallo stesso momento in cui ne fu consapevole il feritore” (fl. 31). Questa consapevolezza, ancor prima di esser valutata sul piano dei profili soggettivi di responsabilità, ha segnato l’assunzione volontaria del dovere di protezione in favore di Marco Vannini non appena questi rimase ferito e ben prima che l’evento morte ebbe a verificarsi. Il dovere del neminem laedere si concretizzò in tal modo, in ragione delle peculiarità del caso, ossia di un ferimento verificatosi quando la vittima era ospite della famiglia della giovane fidanzata, in un preciso obbligo di protezione».
3. Passando all’elemento soggettivo, la Corte ha ritenuto – per quanto riguarda la posizione di Antonio Ciontoli – immune da vizi la sentenza impugnata, avendo la stessa ricostruito l’elemento soggettivo del dolo eventuale in maniera coerente, congrua e esente da errori logico-giuridici; ha, infatti, analizzato non solo i vari indicatori richiamati dalla più volte citata sentenza delle Sezioni unite, ma anche altri, dovendosi in ogni caso aver riguardo alla vicenda concreta, che «può mostrare plurimi segni peculiari in grado di orientare la delicata indagine giudiziaria sul dolo eventuale», indagine nella quale, «come per tutte le valutazioni indiziarie, quanto più alta è la affidabilità, la coerenza e la consonanza dei segni tanto maggiore risulta la forza del finale giudizio».
Una circostanza è certa – si legge nella decisione – «Antonio Ciontoli evitò consapevolmente e reiteratamente (come si vedrà, anche determinando le condotte dei suoi familiari nello stesso senso) di osservare l’unica possibile condotta doverosa imposta dal ferimento di Marco Vannini con un colpo di arma da fuoco, ovvero l’immediata chiamata dei soccorsi e la necessaria corretta informazione su quanto realmente accaduto».
Non v’è dubbio, infatti, alla stregua delle risultanze processuali, che, «ove si fosse saputo subito che il ragazzo era stato attinto da un colpo da arma da fuoco, i soccorsi attivati sarebbero stati ben diversi poiché l’operatore del 118 avrebbe attribuito all’evento un “codice rosso”, preavvertendo le strutture mediche in grado di intervenire nell’immediatezza. Quindi non sarebbe stata inviata una ambulanza con a bordo solamente un paramedico e un portantino ma sarebbe subito partito un elicottero con a bordo personale medico specializzato che avrebbe condotto il ferito presso un DEA di secondo livello, come ad esempio il pronto soccorso del Policlinico Gemelli, dove erano sempre disponibili, anche di notte, due rianimatori, un chirurgo toracico e un cardiochirurgo, che ben sarebbero potuti intervenire scongiurando l’evento morte».
Antonio Ciontoli (e, come di dirà meglio più avanti, i suoi familiari) «omise prima, e per un tempo apprezzabile, di chiamare i soccorsi; quando finalmente lo fece, omise di riferire quanto realmente accaduto, sebbene consapevole di aver esploso un colpo di pistola, con un’arma di potenza micidiale, e quindi con chiara rappresentazione della possibile verificazione dell’evento più tragico e, ciononostante, inducendosi ad agire accettando la prospettiva che l’accadimento avesse luogo. Il Ciontoli operò in un lungo contesto temporale, che gli consentì ampiamente di considerare le possibili conseguenze della sua condotta, alla realizzazione della quale si determinò nonostante vi fossero tutti gli elementi di allarme derivanti da un ferimento con un’arma da fuoco». Egli – prosegue la sentenza – «peraltro, si adoperò, con il fattivo aiuto dei suoi familiari, per cancellare le tracce della condotta di ferimento: fece nascondere le armi, le cartucce e il bossolo del proiettile sparato; provvide a cancellare le tracce di sangue; provvide a lavare il Vannini, spostandolo dal luogo del ferimento, nonché a rivestirlo con indumenti non suoi. Il Ciontoli ebbe altresì la possibilità di rappresentarsi tutte le conseguenze dannose che possono derivare dallo spostamento di un soggetto ferito; e ciò costituisce patrimonio di conoscenza che non richiede specifiche competenze tecniche».
In conclusione, «la condotta di Antonio Ciontoli fu dunque non solo assolutamente anti-doverosa ma caratterizzata da pervicacia e spietatezza, anche nel nascondere quanto realmente accaduto, sicché appare del tutto irragionevole prospettare – come fa la difesa – che egli avesse in cuor suo sperato che Marco Vannini non sarebbe morto».
4. Quanto all’elemento soggettivo degli altri imputati, «correttamente la Corte territoriale ha inquadrato le condotte dei fratelli Ciontoli e della Pezzillo nella fattispecie del concorso ex art. 110 cod. pen.», avendo i giudici di merito «ben spiegato, analizzando le risultanze processuali, come tutti gli imputati avessero tempestiva cognizione che era stato sparato un colpo di pistola, oltre che per il rumore avvertito, pure per il bossolo che Federico Ciontoli rinvenne subito, dandone immediatamente comunicazione agli altri, come del resto confermato dagli stessi ricorrenti nei loro interrogatori».
Correttamente la Corte territoriale – prosegue il Collegio – «ha ritenuto che i dati di pregnanza indiziaria per la ricostruzione dell’elemento soggettivo a carico di tutti gli imputati militino per la configurabilità del concorso nell’omicidio con dolo eventuale, essendo del tutto inverosimile che la Pezzillo, Federico e Martina Ciontoli potessero credere anche all’ulteriore mendacio che caratterizzò la condotta di Antonio Ciontoli, quando finalmente chiamò il 118 riferendo tuttavia che la ferita era stata provocata da un pettine a punta su cui Marco Vannini era scivolato. Ancora di più in quel momento essi ebbero piena cognizione della gravità di quanto stava accadendo, con un padre evidentemente impegnato, in maniera pervicace e crudele, a ritardare un intervento di soccorso che potesse risultare adeguato per salvare la vita di Vannini. Essi rimasero ancora una volta inerti, non assumendo alcuna fattiva iniziativa per aiutare la persona offesa. Non si attivarono finanche nel riferire subito ai genitori di Vannini quanto fosse accaduto. Come si è visto, i giudici di merito hanno accertato che la Pezzillo li chiamò una prima volta per dire loro che Marco si era fatto “un po’ male”, cadendo per le scale, e una seconda volta solo per avvertirli di recarsi al P.I.T., senza specificare che cosa fosse successo».
5. Sebbene – come si è visto – l’intera motivazione della sentenza impugnata abbia posto in luce che anche i familiari di Antonio Ciontoli agirono con dolo eventuale rispetto all’evento morte, nella parte finale della pronunzia la Corte territoriale ha ritenuto applicabile l’art. 116 cod. pen., onde differenziare le posizioni a livello sanzionatorio. Secondo la Corte d’Assise d’appello, dunque, i familiari di Antonio Ciontoli si erano prospettati un evento meno grave e diverso da quello ravvisato ed accettato da quest’ultimo, cioè quello delle lesioni anche gravi in danno del Vannini.
L’assunto è stato considerato dalla Corte di Cassazione erroneo.
Nella vicenda in esame «non è riscontrabile un mutamento nell’agire o nella volontà di Antonio Ciontoli tale che possa ritenersi applicabile l’art. 116 cod.pen.; non è riscontrabile un reato diverso scaturito dalla deviazione rispetto alla volontà dei compartecipi nolenti; non si verte in un caso in cui i concorrenti sono stati convinti di cooperare nel delitto concordato di lesioni, il quale poi è mutato per opera di un altro concorrente. Non vi è, quindi, alcun mutamento prevedibile della condotta di Antonio Ciontoli, la cui colposa mancata previsione possa essere ascritta a titolo di dolo ai familiari concorrenti». D’altronde – chiarisce la Corte – «per l’applicazione dell’art. 116 cod. pen. non basta la volontà dell’evento diverso ma è necessaria la contrapposizione nell’iter criminoso di una variazione del titolo di reato, a causa dell’agire del correo, la quale interviene a mutare l’esito delittuoso che tutti i concorrenti avevano concordato, determinandosi volontariamente e consapevolmente verso uno specifico reato».
Se, da un lato, deve essere ribadito che nella specie non è configurabile il cd. concorso anomalo, dall’altro, le volontà della Corte territoriale di diversificare il grado di intensità del dolo e di partecipazione causale dei concorrenti (facendo distinzione tra i familiari che si sono «potuti rendere conto della gravità della ferita inferta a Marco Vannini e delle sue sempre più gravi condizioni di salute» e «la figura autoritaria di Antonio Ciontoli, il suo carisma e le continue rassicurazioni rivolte ai propri familiari unitamente alla diversità di età ed esperienze della moglie e dei due figli rispetto a quelle del marito e padre, militare di carriera e addetto ai servizi di sicurezza del servizio segreto») «si attagliano perfettamente alla fattispecie di cui al combinato disposto degli artt. 110, 114, comma terzo, cod. pen., nella parte in cui fa riferimento al concorrente che “è stato determinato a commettere il reato o a cooperare nel reato, quando concorrono le condizioni stabilite” nel numero 3 del primo comma dell’articolo 112 cod. pen., che fa a sua volta riferimento a “chi, nell’esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza, ha determinato a commettere il reato persone ad esso soggette”».
Il riconoscimento dell’attenuante prevista dall’art. 114, comma terzo, con riferimento all’art. 112, comma primo, n. 3, cod. pen., «presuppone una relazione caratterizzata da un rapporto di supremazia di un soggetto nei confronti di un altro, che può derivare anche da una peculiare posizione nella famiglia, pur non esaurendosi nella titolarità della potestà genitoriale e comprendendo ogni situazione di reale ed effettiva subordinazione in ambito familiare».
Rilevato il suddetto errore di diritto, la Cassazione ha evidenziato come non sia necessario annullare sul punto la sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame, potendo la stessa Corte procedere alla corretta qualificazione del fatto ascritto a Federico Ciontoli, Martina Ciontoli e Maria Pezzillo ai sensi degli artt. 110, 114 comma terzo e 575 cod. pen., giacché il trattamento sanzionatorio previsto per tale fattispecie è lo stesso determinato dalla Corte territoriale applicando l’art. 116 cod. pen.