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Il Tribunale di Milano esclude la configurabilità della ricettazione in capo all’assuntore non sportivo di anabolizzanti

[a cura di Guido Stampanoni Bassi]

Tribunale di Milano, Sezione VI Penale, 25 giugno 2021
Giudice dott. Mario Morra

Segnaliamo ai lettori la sentenza con cui il Tribunale di Milano si è pronunciato – escludendola – sulla configurabilità del reato di ricettazione nel caso di acquisto di anabolizzanti per uso personale (ossia, non allo scopo di alterare le prestazioni agonistiche durante una gara sportiva).

La configurabilità del reato di ricettazione in capo all’acquirente finale delle sostanze vietate dalla legge 376/2000 – si legge nella pronuncia – «è stata oggetto di meditazione da parte della giurisprudenza di legittimità» che, «dopo un iniziale orientamento negativo fondato sulla non configurabilità, in casi del genere, della nozione di profitto (v. in particolare, la sentenza n. 843 del 19/12/2012 secondo cui “il dolo specifico del fine di profitto, previsto dall’art. 648 cod. pen. per integrare la condotta di reato, non può consistere in una mera utilità negativa, che si verifica ogni volta che l’agente agisca allo scopo di commettere un’azione esclusivamente in danno di sé stesso, sia pure perseguendo un’utilità meramente immaginaria o fantastica), ha finito con l’ammettere la configurabilità del reato di ricettazione a carico di chi acquisti sostanze anabolizzanti, trattandosi comunque di beni che, al di là dello scopo ulteriore perseguito dal soggetto agente (eventualmente di assunzione esclusivamente personale per ragioni puramente estetiche), determinano un effettivo incremento della sua sfera patrimoniale».

Se, da un lato, quest’ultima è una conclusione «di per sé difficilmente contestabile, anche considerando il fatto che le sostanze “dopanti” non sono affatto prive di una connotazione patrimoniale intrinseca (tanto da essere commercializzate) e che ai fini della sussistenza del reato di ricettazione, non è certo richiesto che chi riceva un bene di provenienza delittuosa abbia come scopo ulteriore quello di cederlo a terzi, ricavandone quindi un lucro economico, e non anche, ad esempio, trattenerlo per sé», dall’altro, l’orientamento contrario (v. la già citata sentenza n. 843 del 19/12/2012) era «verosimilmente mosso dalla apprezzabile e del tutto condivisibile esigenza di arginare la sconfinata portata applicativa assunta nei decenni dal reato di cui all’art. 648 cod. pen., giunto a sanzionare condotte, come quella di chi riceve anabolizzanti per farne uso personale, che non hanno alcuna attinenza rispetto al tradizionale campo di riferimento della ricettazione, da secoli riconosciuta dalla nostra legislazione quale reato contro il “patrimonio”».

Il Tribunale mostra di aderire a quest’ultimo – contrario – orientamento giurisprudenziale evidenziando come «le conseguenze inaccettabili derivanti dalla abnorme dilatazione del campo di applicazione del reato di ricettazione meritino di essere valutate, non solo in chiave storico-ricostruttiva, ma alla luce di alcuni principi fondanti il nostro sistema penale ed in particolare il principio di legalità (art. 25 Cost.), con i suoi corollari di “riserva di legge”, “tassatività e determinatezza” della fattispecie penale e “frammentarietà” del diritto penale».

In altri termini, «occorre chiedersi se la punibilità della condotta di chi acquisti sostanze anabolizzanti per farne uso esclusivamente personale ed al di fuori di qualsiasi contesto di attività sportiva agonistica sia stata mai anche indirettamente contemplata dal legislatore, nonostante lo stesso sia intervenuto sulla materia de qua attraverso una legge speciale, diretta a regolamentare l’intero settore di riferimento e ad introdurre delle figure di reato in relazione a specifiche condotte tra le quali quella in esame non figura minimamente».

Il Tribunale evidenzia come «l’articolo 9 comma 7 della legge n. 376/2000 (oggi 586 bis c.p.) disciplini e sanzioni solo determinate condotte (procurare ad altri, somministrare, favorire l’utilizzo, assumere e commercializzare sostanze dopanti), richiedendo per di più che le stesse siano realizzate al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti o modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali sostanze», essendosi, dunque, in presenza di un «testo normativo assolutamente univoco nel sanzionare tale condotta solo ove la stessa venga posta in essere da un atleta professionista, che agisca al fine di alterare prestazioni agonistiche o sottrarsi ai relativi controlli».

In conclusione, ad avviso del Tribunale l’applicazione del reato di ricettazione all’assuntore non sportivo di anabolizzanti «determinerebbe la configurazione di un sistema oggettivamente incoerente, di legittimità costituzionale più che dubbia», essendo del tutto irragionevole «ipotizzare che l’acquisto o la ricezione di sostanze dopanti da parte di un soggetto che non svolge alcuna attività sportiva e non diretta all’alterazione di alcuna competizione possa essere sanzionato con una pena (da 2 a 8 anni di reclusione ex art. 648 c.p.) di gran lunga superiore a quella (da 3 mesi a 3 anni di reclusione) prevista a carico dello sportivo professionista che assuma tali sostanze per alterare una gara, a carico di chi, al medesimo fine, procuri o somministri al primo le sostanze dopanti o ancora a carico di chi faccia commercio professionale di tali sostanze (da 2 a 6 anni di reclusione)».

D’altronde, la mancata previsione, da parte di una legge specificamente intervenuta sulla materia, delle condotte di acquisto e assunzione di sostanze dopanti per uso personale, da parte di soggetti diversi dagli sportivi agonisti, deve ritenersi «chiaramente indicativa della irrilevanza penale implicitamente attribuita a tali condotte dal legislatore, non eludibile attraverso l’applicazione di figure criminose generali, che nulla hanno a che fare con la tutela della salute pubblica o individuale, perché ciò determinerebbe una violazione sostanziale del principio di legalità».

Redazione Giurisprudenza Penale

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