Messa alla prova per l’ente: brevi note ad una recente ordinanza del Tribunale di Spoleto
in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 9– ISSN 2499-846X
di Vittoria Drosi e Alice Di Prima
Tribunale di Spoleto, Ordinanza, 21 aprile 2021
Giudice dott. Luca Cercola
La recente ordinanza del Tribunale di Spoleto ha affrontato la dibattuta questione riguardante l’ammissibilità dell’istituto della messa alla prova all’ente, escludendo la possibilità di accesso a tale rito a favore di enti imputati in ordine all’illecito amministrativo dipendente da reato, nel caso in esame in riferimento alla fattispecie di cui all’art. 25-undecies, comma 2, D. Lgs. 231/01. Ritiene, infatti, il giudicante che l’istituto non sia compatibile con la fisionomia e gli scopi del diritto e del processo penale a carico degli enti.
Facendo un passo indietro, e considerando che l’istituto non è previsto specificatamente, né richiamato, dal D. Lgs. 231/01, è possibile notare come la giurisprudenza non sia giunta ancora ad una soluzione univoca.
Nello specifico, con ordinanza del 27 marzo 2017, il Tribunale di Milano aveva sostenuto la non applicabilità della messa alla prova alle società imputate ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001 “in assenza, de jure condito, di una normativa di raccordo che renda applicabile la disciplina di cui agli artt. 168 bis c.p., alla categoria degli enti”. Secondo il giudice ambrosiano, la messa alla prova avrebbe natura sostanziale, in quanto il positivo esito della prova comporterebbe l’estinzione della pena, e natura di sanzione penale. Di conseguenza, l’applicazione dell’istituto alle persone giuridiche violerebbe il principio di riserva di legge sancito dall’art. 25 della nostra Costituzione.
Successivamente, il Tribunale di Modena, con ordinanza dell’11 dicembre 2019 e successiva sentenza di non doversi procedere emanata il 19 ottobre 2020, aveva ritenuto applicabile la messa alla prova a una società e, al termine del programma svolto positivamente, aveva ritenuto estinto l’illecito amministrativo.
Il Tribunale di Bologna, con ordinanza del 10 dicembre 2020, invece, pur sostenendo, a differenza del giudice meneghino, che i lavori di pubblica utilità correlati al programma di trattamento non abbiano natura sanzionatoria e, quindi, sarebbe così astrattamente possibile una applicazione analogica della messa alla prova all’ente, ha comunque escluso l’ammissibilità dell’applicazione dell’istituto. Ha infatti affermato che “il mancato coordinamento della legge n. 67 del 2014 con il testo della 231 del 2001 non è frutto di una mera dimenticanza del legislatore, ma è da considerare voluto, in ossequio al principio del ubi lex dixit voluit, noluit tacuit” ritenendo che l’istituto “sia modellato sulla figura dell’imputato persona fisica”.
L’inapplicabilità attuale è autorevolmente sancita, pur se per ragioni differenti, anche dalla Cassazione (Cassazione penale, Sez. III, 2 novembre 2020, n. 30305) ma sulla base della “natura amministrativa” che “non consente l’applicabilità di istituti giuridici specificamente previsti per le sanzioni di natura penale”.
Venendo adesso all’ordinanza del Tribunale di Spoleto, il giudice esordisce ritenendo non percorribile il ricorso allo strumento della analogia, in quanto “il percorso esegetico astrattamente concepito lascerebbe, in concreto, ampi margini di incertezze operative; in particolare, rimarrebbe imprecisato l’ambito di applicazione della messa alla prova per gli enti, non essendone chiari i requisiti di ammissibilità”. L’accesso al rito premiale della messa alla prova deve essere negato agli enti – prosegue il Tribunale – «anche per un altro motivo: ossia, il fatto che il programma di messa alla prova, con i dovuti riadattamenti che risentono della assenza di connotazioni antropomorfiche per il soggetto imputato, finirebbe con l’assumere un contenuto sostanzialmente equipollente alle prescrizioni dettate dall’art. 17 D. Lgs. 231/2001».
E’ noto però – si legge nell’ordinanza – «che l’adempimento delle prescrizioni stabilite dall’art. 17 D. Lgs. 231/2001, se avvenuto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, non prevede l’estinzione del reato, bensì stabilisce, in caso di condanna all’esito del giudizio, una mitigazione del trattamento sanzionatorio escludendo l’applicazione di sanzioni interdittive». Se così è, «offrire all’ente la possibilità di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova significherebbe fornirgli uno strumento agevole per eludere la disciplina di cui agli artt. 17 e 65 D. Lgs. 231/2001 consentendogli di ottenere, alle stesse condizioni e senza alcun onere aggiuntivo, il beneficio della estinzione del reato».
La scelta di estendere anche alle persone giuridiche l’istituto della messa alla prova troverebbe un suo fondamento nel fatto che il ‘sistema 231’ prevede già, allo stato attuale, un trattamento di favore per l’ente che si ravvede e collabora, meccanismo non parimenti operante rispetto alla responsabilità delle persone fisiche (sul tema, primi tra tutti, FIDELBO G. – RUGGERO R. A., Procedimento a carico degli enti e messa alla prova: un possibile itinerario, in Resp. amm. soc. enti, 4, 2016, p. 3 ss.).
Infatti, la messa alla prova sarebbe volta a ottenere un “reinserimento” dell’ente, più predisposto alla legalità nello svolgimento della sua attività. Questo significherebbe pretendere dall’impresa, ipoteticamente messa alla prova, la realizzazione di condotte riparatorie e risarcitorie, sulla falsariga dell’art. 17, e le si imporrebbe di correggere il modello organizzativo alla luce del progetto presentato con la domanda di ammissione al rito; nonché, eventualmente, gli ulteriori oneri offerti e imposti al momento dell’autorizzazione al rito.
La proposta avrebbe il pregio di non alterare la filosofia di fondo del sistema 231: un meccanismo accostabile alla messa alla prova, infatti, si avrebbe già nella disciplina di cui agli art. 49 e 65.
Il primo prevede la sospensione delle misure cautelari se l’ente richiede di potere realizzare gli adempimenti imposti dall’art. 17; il giudice, se ritiene opportuno accogliere la richiesta, fissa una cauzione da versare in via cautelativa, o autorizza l’ente a prestare una garanzia reale. In caso di inottemperanza delle condotte risarcitorie e di riorganizzazione, la cauzione viene trattenuta dallo Stato. Si tratterebbe, dunque, di rivisitare un meccanismo già esistente, e positivamente giudicato. Il secondo prevede che l’ente, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, possa domandare la sospensione del processo e realizzare gli adempimenti imposti dall’art. 17, dimostrando di non essere stato in grado di realizzarli prima. L’unica differenza rispetto alla proposta del meccanismo di messa alla prova è che, in questo caso, non si realizza l’estinzione del reato, ma solamente una riduzione del trattamento sanzionatorio. La proposta permetterebbe di aumentare le opzioni concesse all’ente.
Infatti, ad oggi, il giudizio sul modello è caratterizzato da una dicotomia: o assolutamente positivo (quasi mai), oppure no (quasi sempre). Quest’ultimo giudizio ricomprende situazioni tra di loro molto eterogene: radicale mancata adozione del modello; adozione del modello, ma di mera facciata; adozione del modello, non di mera facciata, ma tuttavia giudicato inidoneo.
L’istituto avrebbe il pregio di articolare meglio l’inquadramento delle diverse possibili situazioni riscontrabili quando il modello, adottato ex ante, è giudicato inidoneo. Invece, ai sensi della disciplina di cui all’art. 49, le tre ipotesi sono assimilabili, e anzi dello strumento di cui all’art. 49 si può astrattamente usufruire anche se sia mancata del tutto l’iniziativa di adozione di un modello ex ante.
Probabilmente l’istituto non dovrebbe avere un ambito generalizzato di applicazione, cioè rispetto a tutti i reati-presupposto del sistema 231, ma solo rispetto a quelli meno gravi (rectius, meno gravemente sanzionati), esattamente come avviene per le persone fisiche adulte. In realtà, a parere di chi scrive, sarebbe opportuno che lo sforzo riorganizzativo dell’ente venga stimolato, proprio “laddove ce ne è più bisogno”, cioè rispetto ai reati più gravi.
Per concludere, questo strumento permetterebbe di incoraggiare le società all’adozione di un modello non di mera facciata, e conseguentemente sarebbe ridotta la possibilità di commissione degli illeciti; le imprese diligenti sarebbero maggiormente tutelate. Affinché questo scenario possa però essere realizzato è necessario un intervento legislativo.
Come citare il contributo in una bibliografia:
V. Drosi – A. Di Prima, Messa alla prova per l’ente: brevi note ad una recente ordinanza del Tribunale di Spoleto, in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 9