CONTRIBUTIDIRITTO PROCESSUALE PENALE

Abbreviato a seguito di rito immediato, contestazione suppletiva dell’aggravante ex art. 80, c. 2, T.U. STUP. e garanzie dell’imputato. Nota a margine di una decisione della Corte di Appello di Bologna

in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 9– ISSN 2499-846X

Corte di Appello di Bologna, sez. III, 26 marzo 2021, n. 1929
Presidente Santini, Relatore De Simone

1. La vicenda processuale

Per inquadrare la questione giuridica affrontata dalla pronuncia, occorre innanzitutto ripercorrere brevemente i fatti che ne stanno a monte. I due imputati venivano tratti in arresto in quanto trovati in possesso di circa 5 kg di cocaina e 14 kg di marijuana, oltre a un’ingente quantità di denaro contante e a un’arma da fuoco; all’esito dell’udienza di convalida ex art. 391 c.p.p., attinti da custodia cautelare in carcere, essi venivano tratti a giudizio con decreto di giudizio immediato. La contestazione, così come cristallizzata dal Pubblico ministero nella richiesta di giudizio immediato, non conteneva l’aggravante di cui all’art. 80, co. 2, D.P.R. 309/90.

Di talché le difese, ritualmente, depositavano richiesta di giudizio abbreviato non condizionato ai sensi dell’art. 458 c.p.p. presso la cancelleria del G.I.P. presso il Tribunale di Ravenna. Quest’ultimo, valutata la ritualità della richiesta, fissava con decreto l’udienza dedicata alla celebrazione del rito abbreviato di fronte ad altro G.I.P. dello stesso Tribunale.

Sennonché, in quella sede, prima che il giudice pronunciasse l’ordinanza ammissiva del rito, il Pubblico ministero procedeva alla modifica del capo d’imputazione così da contestare l’aggravante dell’ingente quantità di cui all’art. 80, co. 2, cit., in relazione alla sostanza stupefacente tipo cocaina. Le difese ne rilevavano la tardività, in quanto successiva sia alla richiesta di giudizio immediato, sia del rito a prova contratta di fatto già instauratosi. In subordine, le difese chiedevano termine per valutare la modifica dell’imputazione, anche nell’ottica di continuare ad aderire ultrattivamente alla scelta di rito alternativo.

Il G.I.P. presso il Tribunale ravennate pronunciava allora un’articolata ordinanza con cui autorizzava la contestazione dell’aggravante, negava la concessione del termine a difesa e disponeva di procedersi oltre. Nell’ambito della medesima udienza poi invitava le parti a discutere e, in esito, perveniva alla condanna degli imputati.

In particolare, l’ordinanza poggiava il diniego alla concessione del termine a difesa rilevando, in primo luogo, la natura oggettiva dell’aggravante de qua. Stando al provvedimento,  la circostanza, intrinsecamente intesa, era infatti nota alle difese da tempo: quantomeno dalla stesura della relazione tecnica sulla sostanza e dalla formulazione del capo d’imputazione (che conteneva i dati quantitativi); nella sua materialità, l’aggravante doveva dunque ritenersi già contestata.

Inoltre, il giudicante faceva proprio il convincimento sulla base di un orientamento giurisprudenziale tale per cui «la richiesta di giudizio abbreviato è revocabile fino all’adozione del provvedimento del giudice che dispone il rito quando è proposta ai sensi dell’art. 438 cod. proc. pen., mentre, laddove è presentata a seguito di decreto di giudizio immediato, può essere revocata fino al momento della fissazione dell’udienza per la ammissione del procedimento speciale» (cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 7 giugno 2017, n. 33908, Rv. 270563; Cass. Pen., Sez. VI, 29 marzo 2017, n. 20803, Rv. 269892; Cass. Pen., Sez. V, 19 marzo 2015, n. 21568, Rv. 263708). In altre parole, visto che il giudizio abbreviato “secco” è oggetto di un diritto potestativo dell’imputato che, se esercitato, vincola il giudice a una mera presa d’atto della richiesta (sia pure al netto della verifica dei presupposti “formali” sulla tempestività e titolarità della richiesta), quest’ultima deve ritenersi revocabile solo sino a quando non sia stata fissata l’udienza di cui al secondo comma dell’art. 458 c.p.p., in quanto è in quel momento che si producono gli effetti della richiesta tali per cui essa diventa non più revocabile. E in ciò – sostiene il medesimo indirizzo giurisprudenziale citato dal G.I.P – si differenzierebbe da una richiesta di abbreviato in udienza preliminare o, nei casi di citazione diretta a giudizio, prima dell’apertura del dibattimento, ossia che tali effetti si dispiegherebbero direttamente con l’ordinanza ammissiva del rito, mancando in questo caso il vaglio intermedio operato del primo G.I.P.

Sempre il medesimo indirizzo giurisprudenziale, peraltro, non riconosce comunque all’imputato la facoltà di chiedere un termine a difesa.

Si badi, tuttavia, come per l’ordinanza gravata un medesimo effetto preclusivo non varrebbe per il Pubblico ministero, il quale, successivamente al decreto di fissazione udienza, ma prima della successiva ordinanza, può ancora modificare il capo d’imputazione, in quanto sarebbe l’ammissione al rito a prova contratta a cristallizzare l’imputazione e non invece la richiesta di giudizio abbreviato. Su quest’ultimo punto, tuttavia, pende ricorso per Cassazione pertanto pare prematuro soffermarvisi.

In altre parole, il Giudice di prime cure fa leva su due argomenti distinti: in primo luogo, l’aggravante ad effetto speciale doveva ritenersi in fatto già contestata per le ragioni sopra dette e, ad ogni modo, la fissazione dell’udienza ex art. 458, co. 2, c.p.p., è sufficiente a produrre gli effetti preclusivi rispetto alla revoca e, per tale ragione, veniva negata la concessione del termine a difesa.

Avverso l’ordinanza emessa dal Giudice per le indagini preliminari, unitamente alla sentenza, proponevano gravame le difese degli imputati, lamentando, tra gli altri motivi, la nullità della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 180 c.p.p., con riferimento all’art. 178, co. 1, lett. c), in ordine alla mancata concessione del termine a difesa.

In primo luogo, si censurava il metodo “due pesi e due misure” adottato dal giudice di prime cure, che nello stesso provvedimento racchiudeva due prese di posizioni difficilmente conciliabili tra loro: stando all’ordinanza, infatti, da un lato per la contestazione suppletiva di un’aggravante ad effetto (ultra)speciale il decreto di fissazione dell’udienza ex art. 458 comma 2 c.p.p. non avrebbe ancora determinato i suddetti effetti “paralizzanti” (con la conseguenza che veniva autorizzata la modifica dell’imputazione); dall’altro, tali effetti paralizzanti si sarebbero al contrario già prodotti a proposito della richiesta del termine a difesa, obbligando l’imputato ad accettare passivamente il mutamento del capo d’accusa.

Inoltre, il giudice di prime cure faceva mostra di non aderire all’insegnamento della giurisprudenza formatasi in seno alla Consulta in tema di contestazioni suppletive. In particolare, in una recente pronuncia[2], la Corte Costituzionale, nel dichiarare la parziale illegittimità dell’art. 517 c.p.p., ha statuito che: «l’art. 517 cod. proc. pen. va dichiarato [pertanto,] costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui, nel caso di contestazione in dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato cui attiene la nuova contestazione». Sulla scorta di tale pronuncia, un’interpretazione analogica in bonam partem – non vietata in materia penale – avrebbe dovuto condurre il giudicante a riconoscere una garanzia – per così dire uguale e contraria a quella esplicitata dalla sentenza costituzionale appena citata– anche nel caso di specie.

Di assoluta importanza, anche per la chiarezza espositiva, il seguente passaggio della pronuncia della Corte costituzionale: «…si riscontra il pregiudizio al diritto di difesa, connesso all’impossibilità di rivalutare la convenienza del rito alternativo in presenza di una variazione sostanziale dell’imputazione, intesa ad emendare precedenti errori od omissioni del pubblico ministero nell’apprezzamento dei risultati delle indagini preliminari. Così come si riscontra la violazione del principio di eguaglianza, correlata alla discriminazione cui l’imputato si trova esposto a seconda della maggiore o minore esattezza e completezza di quell’apprezzamento[3]…». È innegabile, per riprendere le parole del Giudice delle leggi, che: «…la preclusione censurata impedirebbe all’imputato di elaborare una strategia difensiva che tenga conto dell’intera vicenda processuale, posto che la modifica anche di una sola delle plurime imputazioni sarebbe suscettibile di alterare i presupposti delle valutazioni in ordine alla convenienza del rito speciale, operate dalla difesa considerando i possibili esiti del processo in base alle imputazioni originariamente formulate dal pubblico ministero[4]…». Né potrebbe sostenersi che la contestazione di un’aggravante non sia idonea ad alterare in maniera significativa il quadro processuale, per di più se trattasi di circostanza aggravante ad effetto speciale.

Da ultimo, a parere delle difese, sfuggiva al primo giudice il ruolo e la funzione processuale del termine a difesa, che non è solo quella di valutare la trasformazione del rito, ma anche di poter ricalibrare la propria strategia sulla mutata res iudicanda. Infatti, ove cambi il quadro di riferimento, si rende quanto mai necessario, per poter concretamente esercitare il diritto di difesa, consentire di prepararsi al mutato thema decidendum. Sul punto la giurisprudenza di legittimità, di rango costituzionale e finanche sovranazionale[5] ha sempre difeso strenuamente questo principio di civiltà giuridica che è alla base del giusto processo e rappresenta un patrimonio del tessuto dei nostri valori costituzionali.

Tali argomentazioni vanno poi calate nell’ambito delle caratteristiche proprie del giudizio immediato, all’interno del quale si è innestata la richiesta di giudizio abbreviato non condizionato degli appellanti. Il termine breve di 15 giorni dalla notificazione del decreto di giudizio immediato per operare la scelta del rito abbreviato ai sensi dell’art. 458, c. 1, c.p.p. è già di per sé tale da comprimere significativamente l’esercizio del diritto di difesa, sacrificando le istanze di garanzia. Se in tale dinamica processuale si verifica un mutamento della qualificazione giuridica del fatto, nella forma della contestazione suppletiva di una circostanza aggravante ad effetto speciale tale da incidere pesantemente sul trattamento sanzionatorio, stravolgendo i presupposti giuridici sui quali aveva fatto legittimamente affidamento l’imputato per la scelta del rito, il diritto di difesa deve essere salvaguardato, quanto meno con la concessione di un termine, necessario per consentire all’imputato di preparare nuovamente la propria difesa, eventualmente rinunciando alla scelta del rito.

In subordine le difese sollevavano questione di legittimità costituzionale dell’art. 458, co. 2, c.p.p., per violazione degli artt. 24 comma 2, 111 comma 3, 117 comma 1 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, par. 3, lett. a) e b), Convenzione EDU.

2. La sentenza della Corte d’appello di Bologna

Come si può leggere dalla pronuncia in commento, il giudice del gravame ha mostrato di aderire alla tesi delle difese, sviluppando una trama argomentativa con interessanti riferimenti alla giurisprudenza di legittimità e costituzionale.

In primo luogo, la Corte ha dato atto di come la giurisprudenza citata dal G.I.P. ravennate – in base alla quale veniva negata la concessione del termine a difesa – attenesse a un “normale” sviluppo processuale, ossia a casi in cui, successivamente alla notifica di decreto di giudizio immediato e alla tempestiva richiesta di giudizio abbreviato, l’imputazione non veniva investita da alcuna variazione. Nel caso di specie, tuttavia, era intervenuta una modifica dell’accusa, che «ha in qualche modo cambiato le carte in tavola imponendo un ripristino del contradditorio tra le parti». Non solo: la Corte d’appello altresì additava come «non condivisibile» l’osservazione del giudice di primo grado in merito ad una pretesa contestazione ab origine dell’aggravante ex art. 80, co.2, D.P.R. 309/90, motivata sulla asserita natura dirimente del dato quantitativo, pacificamente conosciuto dalle difese. Infatti, il superamento del c.d. valore-soglia rappresenta un requisito necessario, ma di per sé non sufficiente, non essendo previsto alcun automatismo, anzi, al contrario residuando sempre la valutazione discrezionale del giudice di merito.

Venendo ora alla giurisprudenza citata dalla Corte d’Appello di Bologna, giova da subito evidenziare il richiamo alla pronuncia Cass. pen., SS. UU, 18 aprile 2019, n. 5788, che, pur occupandosi del diverso problema della illegittimità delle contestazioni suppletive patologiche dentro al giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria ex art. 438, co. 5, c.p.p., o nel quale l’integrazione probatoria sia disposta ex officio a norma dell’art. 441, co. 5, c.p.p., svolge alcune importanti osservazioni sul tema che qui ci occupa. In particolare, le Sezioni Unite rilevano come: «l’imputazione è presidio di garanzia per l’imputato che ha diritto a conoscere nei suoi esatti termini il contenuto dell’accusa sulla cui base opera le proprie scelte anche in relazione al rito processuale e alla modalità di accesso ad esso. Ritenere che il pubblico ministero possa, nel rito abbreviato condizionato, modificare ad libitum l’imputazione originaria, perché ritenuta non adeguata rispetto a quanto già è agli atti del processo, vuol dire minare una garanzia dell’imputato e indirettamente la bontà delle decisioni del giudice nella fase di ammissione al rito».

Ancora. La Corte Territoriale richiama la pronuncia Cass. Pen., Sez. II, 8 luglio 2020, n. 23573, in cui si ribadisce la facoltà per l’imputato di modificare la scelta del rito processuale nel corso dell’udienza ex art. 458, co. 2, c.p.p. fissata per la celebrazione del giudizio abbreviato, nella porzione precedente all’ammissione del rito.

Da ultimo, a ulteriore conforto di quanto detto, la Corte bolognese rinviene un “autorevole riferimento” nella sentenza n. 378/1997 della Corte Costituzionale, la quale, nel respingere questione di legittimità costituzionale degli artt. 441, co. 1 e 458 c.p.p. per cui in linea generale è precluso al Pubblico ministero operare contestazioni suppletive dopo l’ammissione del giudizio abbreviato non condizionato, osserva come tale determinazione sia giustificata anche dalla ratio che ha ispirato l’introduzione del rito alternativo, ossia la sua finalità deflattiva, anche nell’ottica di incentivarne il ricorso, quest’ultimo altresì motivato dal fatto che l’imputato si metterebbe al riparo dal rischio di contestazioni suppletive.

Pertanto – conclude la Corte d’Appello – un’interpretazione costituzionalmente orientata non può che condurre alla nullità dell’ordinanza impugnata ex art. 178, co. 1, lett. c) in ordine alla mancata concessione del termine a difesa a fronte della contestazione suppletiva dell’aggravante, disponendo, ai sensi degli artt. 185 e 604, co. 4, c.p.p., il rinvio degli atti al medesimo giudice nella fase in cui la nullità si è verificata, ossia nell’udienza dedicata all’instaurazione del rito abbreviato, a seguito della consentita contestazione della circostanza aggravante.

3. Considerazioni critiche

La decisione in commento può indubbiamente essere accolta con favore.

Nel solco tracciato dalle Sezioni Unite con la pronuncia 5788/2020, richiamata dalla Corte, si pone un freno a mutamenti dell’imputazione “a sorpresa”.  Tale fenomeno, infatti, in contrasto con la ratio che ne ha ispirato l’introduzione, da un lato scoraggia il ricorso al rito, in quanto l’imputato non sarebbe mai al riparo da contestazioni suppletive e, dall’altro, viola il diritto di difesa, certamente nella sua declinazione sostanziale, ossia come diritto di poter conoscere l’addebito rivolto e orientare la propria strategia processuale di conseguenza.

In conclusione, su queste premesse, deve valorizzarsi lo sforzo della Corte territoriale di non cedere il passo di fronte a fondamentali principi del giusto processo.


[1] Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 7 giugno 2017, n. 33908, Rv. 270563; Cass. Pen., Sez. VI, 29 marzo 2017, n. 20803, Rv. 269892; Cass. Pen., Sez. V, 19 marzo 2015, n. 21568, Rv. 263708.
[2]  Cfr. Corte Cost., 9 luglio 2015, n. 139, Pres. Cartabia, Red. Frigo, in Archivio DPC, con nota di G. Leo, Contestazioni suppletive in dibattimento e richiesta di giudizio abbreviato: una nuova pronuncia di illegittimità parziale dell’art. 517 c.p.p., 13 luglio 2015.
[3]  Sent. cit,, p. 8.
[4]  Idem, p. 6.
[5] In particolare l’art. 6, par. 3, lett. b) CEDU, nel prevedere i diritti di difesa alla luce dei principi del c.d. fair trial convenzionale, dispone che: “…ogni accusato ha diritto di…b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa…”. Tema, quest’ultimo, emerso e riempito di contenuto dalla giurisprudenza-fonte della Corte di Strasburgo. Si veda in particolare Gregačević c. Croazia (58331/09, 10 luglio 2012), ove si prevede espressamente che per “tempo adeguato” nella predisposizione della propria difesa debba concretamente tenersi in considerazione la natura del processo, la complessità del caso e la fase del procedimento. Si aggiunga, peraltro, che, secondo i principi statuiti dalla Corte EDU, alla difesa andrà concesso ulteriore termine al verificarsi di determinate evenienze processuali, e ciò al fine di rimodulare la propria strategia (Miminoshvili c. Russia). Tali evenienze includono, ad esempio e tra le varie casistiche, una modifica dell’imputazione (Pélissier e Sassi c. Francia). Si cfr. in particolare il report Guide on article 6 of the European Convention on Human Rights, consultabile a questo url, agg. 30 aprile 2021.

Come citare il contributo in una bibliografia:
G. Valgimigli, Abbreviato a seguito di rito immediato, contestazione suppletiva dell’aggravante ex art. 80, c. 2, T.U. STUP. e garanzie dell’imputato. Nota a margine di una decisione della Corte d’appello di Bologna, in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 9