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L’improcedibilità secondo Giorgio Spangher

[a cura di Lorenzo Nicolò Meazza e Rossana Lugli]

In data 23.9.2021 è stato approvato via definitiva dal Senato il Testo della riforma del processo penale (c.d. Riforma Cartabia), al cui articolo 2, comma 2 è prevista l’introduzione nel codice di procedura penale dell’art. 344 bis c.p.p.

Tale norma agisce da “correttivo” alle modifiche apportate dalla riforma Bonafede – che, lo si ricorda, ha formalmente sospeso dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, ma di fatto abolito la prescrizione per i reati commessi a far data dal 1 gennaio 2020 – introducendo l’istituto dell’improcedibilità dell’azione. Si tratta di un meccanismo che opera qualora il giudizio di appello e quello in Cassazione non vengano definiti entro specifici termini previsti dalla stessa norma.

In particolare, nel caso in cui il giudizio di appello non sia definito decorsi 2 anni, dai 90 giorni successivi al termine previsto per il deposito della sentenza di primo grado (ovvero dal termine conseguente alla proroga prevista dall’art. 154 disp. att. c.p.p.). Mentre, rispetto al giudizio in Cassazione, nel caso in cui lo stesso non venga definito entro il termine di un anno, dopo che siano decorsi 90 giorni dal termine previsto per il deposito della sentenza di secondo grado (ovvero dal termine conseguente alla proroga prevista dall’art. 154 disp. att. c.p.p.).

Tali termini possono essere prorogati qualora si tratti di procedimenti di particolare complessità (per numero di imputati, di imputazioni o di questioni, di fatto o di diritto, da trattare), mentre la disciplina della improcedibilità non si applica nei procedimenti per i delitti puniti con l’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti.

A pochi giorni dall’approvazione del Testo, ne abbiamo parlato con un processualista d’eccellenza, incontrato in occasione del Congresso dell’Unione delle Camere Penali Italiane, tenutosi a Roma dal 24 al 26 settembre 2021: il Professor Giorgio Spangher.

La prima domanda che ci si è posti riguarda la natura di questo istituto di nuova introduzione. L’improcedibilità deve infatti considerarsi norma di diritto processuale ovvero di diritto sostanziale? E quali sono le conseguenti implicazioni?

Il Professore è “tentato di ritenere che si tratti di una misura di natura processuale, come risulta del resto formalmente dall’art. 344 bis c.p.p., che parla di improcedibilità dell’azione. Cioè si tratta, sostanzialmente, degli effetti della durata del processo nella fase delle impugnazioni, con ricadute sul potere di accertamento del giudice e con conseguente azzeramento di qualsiasi di tipo di decisione. Poi potremmo discutere se si tratta di preclusione che incide sull’azione oppure che incide sulla cognizione, perché qualcuno dice che non incide sull’azione, che l’azione è già stata esercitata dal pubblico ministero e che agisce soltanto sul potere del giudice di decidere. Però, che si tratti dell’una o che si tratti dell’altra, è sicuramente una misura di natura processuale e che la differenzia da quella di natura sostanziale (n.d.r. la prescrizione) che invece è legata ad un altro fenomeno, ovvero dal passaggio del tempo dal commesso reato, al momento in cui si deve pronunciare il Giudice, determinato dall’oblio, dalla difficoltà del ricordo dei testimoni.

Quindi sono meccanismi del resto diversi, che senso avrebbe dire che un meccanismo sostanziale si sospende, anzi cessa definitivamente per poi farlo ripartire? No, uno cessa e ne riparte un altro. È la filosofia dei due orologi, una è l’estinzione del reato, l’altra è l’estinzione del processo. Quindi sono fenomeni diversi….

Detto questo però, riconosciuta la natura diversificata dei due strumenti, questo non vuole dire che considerati determinati effetti, cioè voglio dire l’annullamento del processo – sia in un caso l’estinzione del reato, sia nell’altro l’estinzione del processo – questo fenomeno processuale non debba essere ricondotto anch’esso in quelle considerazioni di natura sostanzialistica, per il quale naturalmente operano le previsioni di natura costituzionale: la riserva di legge, l’irretroattività, tutto quello che si vuole, che riguardano l’altro aspetto (n.d.r. la prescrizione)”.

E rispetto alla irretroattività di questa previsione “si discuterà molto: fra chi si fermerà a ritenere che sia uno strumento di natura processuale, secondo il tempus regit actum, e che peraltro la legge riconosce perché ci si ferma alla legge del 1 gennaio 2020 per quanto attiene ai reati, e coloro i quali avendone attribuiti gli effetti – la natura è sempre processuale, ma gli effetti di natura sostanziale, cioè l’azzeramento dell’accertamento – riterrà che invece possa essere retroattiva. Questo è il dibattito, ci sono già posizioni diverse”.

Si è quindi in presenza di un istituto ibrido, al pari di altri già previsti dal codice di rito, anche se in questo caso “l’ibridismo è molto più ampio, la prescrizione è una cosa, ha un suo statuto, mentre qui la prescrizione temporale cessa con la sentenza, non è neanche più sospesa, non se ne può parlare più. L’ibridismo è quindi dato dal fatto che all’interno del codice vengono inseriti due meccanismi diversi, cioè: prima il tempo corre in un certo modo (n.d.r. secondo la prescrizione) e poi corre in un altro (n.d.r. per l’improcedibilità).

Vi è poi il tema centrale dell’individuazione della norma applicabile in relazione al tempus commissi delicti, posto che il nuovo istituto dell’improcedibilità trova applicazione solo rispetto ai procedimenti d’impugnazione che hanno ad oggetto reati commessi a far data dal 1 gennaio 2020.

Sul punto il Professore osserva che “chi non è coperto dalla nuova norma ha comunque la copertura dell’Orlando” una riforma che “non prevedeva la prescrizione processuale e non prevedeva che si fermasse tutto alla sentenza di primo grado, perché prevedeva dei tempi, delle fasi successive che andavano rispettate e ove i tempi delle fasi successive non fossero rispettate si recuperava dal punto di vista del tempo, del medesimo orologio, qui invece un orologio si ferma, si è rotto e parte un altro orologio. Però chi oggi non otterrebbe l’applicazione retroattiva dell’improcedibilità si trova tutelato, avendo commesso un reato prima del 1° gennaio 2020, comunque dall’Orlando. Poi, che l’Orlando sia buona, sia cattiva, sia meglio o sia peggio, in alcuni casi mi è stato detto che in tema di contravvenzioni poteva essere migliore ma lasciamo perdere non è questo il punto”.

Il primo aspetto da chiarire, e da non dimenticare, riguarda però i profili di costituzionalità della norma che introduce l’improcedibilità: “la norma è o non è costituzionale?”. Ci si deve chiedere se “l’incidere sul potere del giudice, l’incidere sull’azione, è qualcosa di costituzionalmente legittimo”.

Emergono poi alcuni temi connessi.

Il primo è quello che riguarda la legittimità di questa norma di nuova introduzione “nella parte in cui consente al giudice di autoprolungarsi il termine”. Su questo “direi che non troverà in Italia nessuno che possa dire di sì, perché oggettivamente che un giudice decida lui è uno snaturamento dei poteri, un debordare da parte del giudice sui poteri”.

Il secondo aspetto attiene invece alla legittimità dei casi in cui il Giudice può prolungare questo termine: “ammesso e non concesso che sia legittimato, legittimo, che sia costituzionale da parte del giudice che dica “ah questo processo sì, questo processo no”, cioè nel senso che non ho il tempo, che ho il tempo, oppure l’ipotesi in cui devo scegliere fra due, cioè scade domani ed io devo farne uno o un secondo… Ecco, la domanda è se sono tasssativi i motivi, le ragioni, cosa vuol dire il numero degli imputati e delle imputazioni… tre, quattro dieci, quindici? E cosa deve intendersi per complessità?”.

Vi è poi un terzo tema, che riguarda sempre la costituzionalità ed è l’individuazione delle situazioni processuali cui la nuova disciplina si applica. Ad esempio, occorre chiedersi se l’improcedibilità trovi applicazione anche nei confronti dell’appello della parte civile per i soli interessi civili, ovvero della sentenza di non luogo a procedere e ancora della sentenza emessa dal giudice di pace.

Superate, o meno, le questioni attinenti alla costituzionalità della norma, non possono trascurarsi anche una serie di problemi applicativi legati “alle situazioni non adeguatamente regolate… in cui si può porre il problema dell’individuazione dei termini e non solo dei termini”.

Nel silenzio della norma occorre chiedersi, ad esempio, cosa accada e quali termini rispettare nelle ipotesi di annullamento della sentenza con rinvio soltanto parziale. E analogamente cosa accade “nel caso di conversione del ricorso in appello? Questo ritardo del ricorso del pubblico ministero che si converte in appello. Uno fa ricorso, uno fa appello e il ricorso si converte in appello, da quando decorre? Dall’appello? E poi, chiaramente, la trasmissione degli atti da parte della Cassazione al giudice dell’appello non avviene immediatamente. Voglio dire… non facciamo l’elenco… sarebbe molto lungo, l’elenco delle criticità legate al computo dei termini perché poi il computo dei termini, determina la fine del processo”.

La riflessione prosegue analizzando le sorti del nuovo istituto rispetto alla responsabilità degli enti ex D. Lgs. 231/01. Ci si domanda se il nuovo istituto trova applicazione anche nei confronti degli enti, in relazione all’art. 34 D.Lgs. 231/01, che prevede l’applicazione delle norme del codice di procedura penale anche nel processo agli enti, se non diversamente stabilito, oppure se prevale l’art. 8 del Decreto, che statuisce un’autonoma responsabilità dell’ente rispetto a quella della persona fisica nel caso di estinzione del reato (per causa diversa dall’amnistia).

Secondo il Professore nel caso di improcedibilità dell’azione ex art. 344 bis c.p.p. “cade, cade tutto”, quindi sia il procedimento a carico della persona fisica, sia quello a carico dell’ente. Anche se, precisa, deve essere il Legislatore a disciplinare queste situazioni, non si può “lasciare alla giurisprudenza un’interpretazione di questo genere”.

Concludendo, questa analisi offre lo spunto per interrogarsi – in via più generale – sul significato dell’improcedibilità: è infatti doveroso chiedersi se “L’imputato è colpevole o innocente, perché nel caso della prescrizione io so che non è innocente perché se gli applico la prescrizione vuol dire che non ho potuto prosciogliere. Qui, in teoria, l’innocente non può essere prosciolto, mentre nell’istituto della prescrizione, se il giudice riconosce che l’imputato è innocente, c’è l’art. 129, comma 2 c.p.p., per cui dice “no, sei innocente”, anche se hai la prescrizione io ti devo prosciogliere. Ma qui non puoi estendere analogicamente il 129, comma 2 c.p.p. Se non dico che sei innocente, allora vuol dire che sei colpevole? Se io non ti applico il 129 comma 2 c.p.p., che non è applicabile perché parla di estinzione del reato, e non di improcedibilità, vuol dire, allora cosa vuol dire, che puoi eseguire la sentenza di primo grado? No!”

La conclusione dell’intervento elimina ogni dubbio in ordine alla natura dell’improcedibilità: “Su questo comandano i processualisti, i penalisti si occupino di altro”.

Redazione Giurisprudenza Penale

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