ARTICOLIDIRITTO PROCESSUALE PENALE

Il principio di ne bis in idem non opera nei rapporti tra giurisdizione italiana e giurisdizione canonica della Santa Sede.

[a cura di Lorenzo Roccatagliata]

Cass. pen., Sez. III, Sent. 17 settembre 2021 (ud. 18 maggio 2021), n. 34576
Presidente Sarno, Relatore Andreazza

Con la sentenza in epigrafe, la Corte di cassazione, Sezione terza, si è pronunciata in merito alla applicabilità del divieto di doppio giudizio per lo stesso fatto (ne bis in idem, stabilito dall’art. 649 c.p.p.) qualora il primo giudizio sia stato celebrato in seno alla giurisdizione canonica della Santa Sede.

Prima di vedere il ragionamento della Corte, si anticipa che la conclusione cui essa è pervenuta è che il ne bis in idem non sia in questo caso applicabile, con la conseguenza che un soggetto può essere giudicato e punito sia dalla Santa Sede che dalla giurisdizione italiana per lo stesso fatto.

Nel caso di specie, l’imputato era stato tratto a giudizio per avere posto in essere atti sessuali nei confronti di minore di anni sedici affidatogli per ragioni di educazione religiosa (art. 609 quater n. 2 c.p.), dopo essere stato giudicato, in sede di giurisdizione canonica, per i medesimi fatti a conclusione di un “processo penale amministrativo”, e condannato, dal delegato dell’Arcivescovo di Pescara-Penne, con decreto penale, alla pena espiatoria perpetua del divieto di esercizio del ministero sacerdotale in perpetuo, con minori di età, nonché alle pene temporanee della sospensione dal ministero sacerdotale per un termine di tre anni e dell’obbligo di dimora, per un periodo di cinque anni per una vita di preghiera e di penitenza, da trascorrere presso una comunità.

Anzitutto, la Corte ha rilevato che tale provvedimento di condanna “non è certamente riconducibile nel novero dei provvedimenti adottati dai tribunali dello Stato della Città del Vaticano, entità distinta ed autonoma rispetto alla Santa Sede, avente potestà giurisdizionale per i delitti previsto dal codice penale e commessi all’interno di questo stesso Stato, ma nell’ambito di quelli previsti dall’ordinamento canonico”.

Inoltre, ad avviso della Corte, “alle pene irrogate (…) non può non riconoscersi (…), natura afflittiva, atteso che le stesse consistono nella ‘privazione di alcuni beni spirituali o temporali imposta legittimamente ad un fedele’, in forma di obbligo, proibizione, privazione, inabilitazione, espulsione, etc. (…), privazione individuabile, dunque, sia nel divieto di esercizio permanente che nell’ obbligo di dimora, sia pure temporaneo”.

Ciò premesso, il Supremo Collegio ha rilevato che “gli ambiti giurisdizionali da porre nella specie a raffronto tra loro (…) sono costituiti, da un lato, dalla giurisdizione canonica, cui il chierico è assoggettato in ragione del suo status clericale, e, dall’altro, dalla giurisdizione statuale (nella specie quella italiana), cui egli è invece assoggettato in ragione del suo status civitatis (essendo l’imputato cittadino italiano cui è rimproverato un fatto-reato commesso in Italia)”.

In merito alla natura del principio di ne bis in idem, la Corte ha ritenuto che esso non costituisca un diritto inviolabile dell’uomo, poiché:

  • nessun riferimento al ne bis in idem può rinvenirsi agli articoli 2 e 3 della Costituzione
  • va escluso che tale principio, con riferimento all’efficacia delle sentenze penali straniere, debba essere riconosciuto come inerente ai diritti inviolabili della persona umana in base alla Convenzione EDU
  • neppure può ricorrersi, come correttamente ritenuto dalla sentenza impugnata, all’art. 10 Cost., secondo cui “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.

Evocando la propria giurisprudenza, la Corte ha infatti ricordato come “il principio del ne bis in idem non abbia natura (…) di principio generale del diritto internazionale capace di prevalere sul principio di territorialità degli artt. 6 e 11 cod. pen., potendo lo stesso trovare applicazione solo in presenza di convenzioni, ratificate e rese esecutive, tra Stati, vincolanti unicamente i paesi contraenti nei limiti dell’accordo raggiunto”.

A tal proposito, il Collegio ha rilevato “come né sussistano accordi specifici intervenuti tra le due parti, né la Santa Sede abbia aderito a convenzioni, di cui sia parte anche l’Italia, che abbiano disciplinato, in deroga all’art. 11 cod. pen., il principio del ne bis in idem. Va in particolare pacificamente escluso che la Santa Sede abbia aderito alla ‘Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen’ (…). Così come è da escludersi che la stessa Santa Sede abbia aderito all’Unione Europea, solo avendo una stabile rappresentanza diplomatica con sede a Bruxelles; il fatto che il Vaticano sia, poi, una ‘enclave’ dell’Italia, quale membro della Unione Europea, non consente certo di affermare, in mancanza di una formale adesione, mai intervenuta, che anche il Vaticano, e la Santa Sede, siano, consequenzialmente, membri della stessa. Allo stesso modo, va rilevato che la Santa Sede non è membro della Organizzazione delle Nazioni Unite, avendovi solo lo status di ‘Osservatore Permanente’”.

La Corte ha ulteriormente affermato che “non appare nella specie invocabile neppure il principio del ne bis in idem specificamente regolato dall’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione EDU (…)”. Il principio di ne bis in idem ivi richiamato, infatti, “non è certamente applicabile nei casi di duplice procedimento nei confronti della stessa persona per il medesimo fatto in due Stati diversi, come confermato dalla stessa giurisprudenza della Corte EDU”.

In ultimo, alla applicabilità del principio di ne bis in idem non può nemmeno pervenirsi “per effetto del disposto dell’art. 23, comma primo, del Trattato tra Santa Sede ed Italia (…) secondo cui ‘per l’esecuzione nel Regno [oggi Repubblica] delle sentenze emanate dai tribunali della Città del Vaticano si applicheranno le norme del diritto internazionale’, ostandovi anzitutto (…), la applicabilità di tale previsione alle sole sentenze ‘dei tribunali della Città del Vaticano’ (ovvero Tribunale di prima istanza, Corte d’Appello e Corte di cassazione) e non anche delle autorità ecclesiastiche”. In ogni caso, ha rilevato la Corte, “la norma non contiene alcuna deroga al principio ex art. 6 cod. pen. della giurisdizione dello Stato italiano per i reati commessi nel suo territorio”.

In conclusione, la Corte ha affermato che “nulla osta a che il chierico, giudicato in sede canonica per il reato di cui all’art. 609-quater cod. pen., possa essere giudicato per lo stesso fatto anche dalla giurisdizione statale”.

Redazione Giurisprudenza Penale

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