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Caso Regeni: l’ordinanza con cui la Corte di Assise di Roma ha restituito gli atti al GUP non essendoci prova della conoscenza del procedimento da parte degli imputati egiziani

Corte di Assise di Roma, Ordinanza, 14 ottobre 2021
Presidente dott.ssa Capri

Segnaliamo, in considerazione dell’interesse mediatico della vicenda (relativa alla morte di Giulio Regeni, avvenuta al Cairo nel 2016), l’ordinanza con cui la Corte di Assise di Roma ha dichiarato la nullità della declaratoria di assenza e del conseguente decreto che dispone il giudizio emesso, nel maggio del 2021, dal GUP del Tribunale di Roma nei confronti dei 4 imputati, con conseguente trasmissione degli atti allo stesso GUP.

L’ordinanza, come ampiamente riportato dagli organi di stampa, riguarda il tema della conoscenza, da parte dei 4 imputati, del procedimento penale pendente presso la Corte di Assise di Roma.

Tema – quello appena riportato – che il GUP del Tribunale di Roma aveva risolto sulla base di una serie di indici dai quali sarebbe stato possibile ritenere, «con certezza, la conoscenza da parte degli imputati della pendenza del procedimento», tra i quali, in particolare, quello tale per cui «la notizia del procedimento sarebbe stata oggetto di una copertura mediatica oggettivamente “straordinaria e capillare”, tale da attingere alla nozione del “notorio”, in merito alla qualità di indagati ricoperta dai soggetti poi imputati».

Gli imputati – si legge nell’ordinanza della Corte di Assise (che ha non ha condiviso le argomentazioni del GUP) – sono cittadini egiziani individuati quali appartenenti alla NSA e alle Investigazioni Giudiziarie del Cairo, su cui non risultano acquisite informazioni in merito alla residenza, al domicilio, alla dimora o ad altre informazioni se non quelle relative alla data di nascita.

Per di più, le richieste inoltrate dall’Italia alla autorità giudiziaria egiziana finalizzate ad ottenere le generalità anagrafiche degli stessi nonché la loro residenza o domicilio (al fine di acquisire formale elezione di domicilio) «non hanno avuto alcun esito nonostante reiterati solleciti per via diplomatica e giudiziaria, nonché appelli ufficiali di risonanza internazionale effettuati dalle massime autorità dello Stato italiano». Né risulta – precisa la Corte – che la «sistematica inerzia delle autorità egiziane a dar seguito alle richieste italiane sia stata portata a conoscenza degli imputati».

Ciò ha determinato – prosegue la Corte – l’impossibilità di notificare presso un determinato indirizzo gli atti agli imputati, i quali, dunque, «non sono mai stati raggiunti da alcun atto ufficiale».

Entrando nel merito delle argomentazioni utilizzate dalle parti per sostenere la conoscenza del procedimento in capo agli imputati, la Corte ha anche osservato come dai verbali delle informazioni rese dagli stessi alla Procura del Cairo non risulti il loro coinvolgimento nel rapimento, né che gli stessi verbali possano essere ricondotti alle procedure rogatoriali avanzate dall’Italia; si tratta, dunque, di atti in seguito ai quali i soggetti «hanno potuto acquisire conoscenza dello stato delle indagini e dell’emergenza di elementi investigativi dai quali desumere un loro coinvolgimento nel monitoraggio del ricercatore italiano, senza che tuttavia sia possibile affermare che questa conoscenza si estenda, in modo completo e approfondito, ai contenuti dell’accusa a ciascuno di loro successivamente mossa». Gli imputati – si osserva nell’ordinanza – avevano, dunque, in quel momento conoscenza solo della fase investigativa e non anche delle successive determinazioni del pm, tant’è che «soltanto in epoca successiva i loro nomi verranno iscritti dal PM nel registro delle notizie di reato».

Quanto, poi, al tema del clamore mediatico del procedimento, la Corte di Assise ha osservato che se, da un lato, «la lettura delle informative dei ROS evidenzi una indubbia risonanza mediatica della vicenda Regeni sui media internazionali con richiamo, anche nominativamente, alle persone degli imputati come soggetti attinti dalle indagini della magistratura italiana», dall’altro, «dalla analisi dei mass media egiziani emerge una situazione in parte diversa», caratterizzata dalla assenza di pubblicazione dei nomi degli appartenenti alle forze di sicurezza (presenti, invece, sui media internazionali in lingua inglese).

Da tali elementi, la Corte ha ricavato l’impossibilità di affermare, con certezza, «la conoscenza, da parte degli imputati della pendenza di un processo a loro carico nei termini imposti dal quadro costituzionale e convenzionale di riferimento».

Si è in presenza, infatti, di meri dati presuntivi, dai quali può inferirsi, «con ragionevole certezza, la sola conoscenza da parte degli imputati della esistenza di un procedimento penale a loro carico, ma non certo quella più pregnante conoscenza – che rileva ai fini della instaurazione di un corretto rapporto processuale – relativa alla vocatio in iudicium davanti al GUP (e poi davanti a questa Corte) con riferimento alle specifiche imputazioni elevate a loro carico». La situazione in cui versavano gli imputati – ossia quella della sola generica conoscenza della pendenza del procedimento – «non basta per presumere sit et simpliciter la conoscenza certa del processo e non può, soprattutto, ritenersi dimostrato che ciascun imputato abbia avuto concreta e piena conoscenza delle specifiche accuse mosse a suo carico in un provvedimento formale di citazione a giudizio».

Ne deriva che, per i medesimi motivi, nemmeno può affermarsi che gli imputati «abbiano tentato di sottrarsi alla giustizia o che abbiano rinunciato in maniera non equivoca al loro diritto di partecipare al giudizio».

Ad avviso della Corte di Assise, infatti, se alcuni degli argomenti evidenziati dalla Procura «dimostrano senza dubbio una assenza di leale collaborazione delle autorità giudiziarie egiziane» – comportamento, questo, «di cui lo Stato egiziano assume nelle sue massime autorità la piena responsabilità» – tuttavia, si tratta, pur sempre, di doglianze che rimangono assorbite dalla insufficiente prova della conoscenza dei contenuti dell’accusa da parte degli imputati. In altri termini – questo è il ragionamento dei giudici – «in difetto di una prova piena, nessun comportamento potrà mai essere valutato come espressione di una volontaria sottrazione, non potendo volersi sottrarre da un processo i cui contenuti non siano sufficientemente noti». Né tale argomento può essere superato sulla base di un presunto coinvolgimento dei soggetti nei fatti contestati, in quanto così si violerebbe il principio di non colpevolezza (v. sentenza Sejdovic), essendo emersa solo la partecipazione, da parte di uno degli imputati, al team investigativo nei primi mesi delle investigazioni.

In conclusione, gli elementi sopra sintetizzati «non consentono di modificare il giudizio sulla carenza dei presupposti per incardinare il processo, senza insanabile pregiudizio per il diritto di difesa degli imputati e il loro diritto ad un equo processo».