Pubblicato il terzo fascicolo di Giurisprudenza Penale Trimestrale 2021.
a cura di Lorenzo Roccatagliata
Pubblichiamo di seguito il fascicolo n. 3, 2021 di Giurisprudenza Penale Trimestrale.
Il fascicolo si trova anche nella sezione della Rivista dedicata all’edizione trimestrale. Per accedervi, clicca qui.
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Efficienza del processo penale e qualità della giurisdizione: le sfide della riforma Cartabia.
Con l’approvazione della l. n. 134 del 27 settembre 2021 (Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari) il processo penale si incammina verso una nuova riforma.
Non è la prima, né la seconda volta che ci si avvia in questa direzione: in oltre trent’anni di vita, il corpus normativo del rito penale ha subito una pluralità di interventi correttivi, volti a rimodellare gli istituiti processuali nella ricerca, non semplice, di un punto di equilibrio tra le concorrenti esigenze della giustizia sostanziale della decisione, da un lato, e della certezza del diritto, dall’altro.
La ricostruzione storica del fatto e l’interpretazione della legge sono operazioni per loro stessa natura fallibili; e per ridurre al minimo possibile il rischio dell’errore giudiziario occorre non solo assicurare la massima possibile attendibilità del giudizio, attraverso metodi di acquisizione della conoscenza codificati e sicuri, ma anche prevedere un attento controllo del risultato, attraverso le impugnazioni di merito e di legittimità. Per contro, l’interesse (dello Stato, prima ancora che della persona sottoposta a precesso) ad una decisione giusta va conciliato con la necessità di evitare la perenne instabilità della decisione, l’eccessivo costo del sistema e l’irragionevole durata del processo.
Una giustizia lenta, che troppo spesso gira a vuoto per anni e poi si arresta al sopraggiungere della prescrizione del reato, non è una giustizia “giusta”. Come non lo è, allo stesso modo, quella sommaria, sbrigativa, che raggiunge rapidamente, ma in modo inaffidabile, il proprio obiettivo.
Il focus della riforma Cartabia – come già del d.d.l. Bonafede, sul quale si sono incardinati gli ultimi emendamenti governativi, e, prima ancora, della riforma Orlando del 2017 – è soprattutto rivolto al secondo dei due fattori: l’efficienza del processo.
E’ sin troppo evidente che, per incidere sui tempi di risposta della macchina giudiziaria e consentirle di produrre tempestivamente risultati utili, non si può agire solo sul termine di prescrizione: innalzarlo, o neutralizzarlo per impedire l’estinzione del reato, senza al contempo creare le condizioni per un recupero di funzionalità e capacità “produttiva” del sistema, significa semplicemente accantonare il problema, non risolverlo. Peggio: significa abbandonare l’imputato al suo destino, senza più alcun freno alla durata sine die del processo.
Difficile negare, infatti, che il congegno della prescrizione vale, nel nostro ordinamento, sia ad evitare che una condanna venga scontata ad eccessiva distanza di tempo dal fatto di reato, quando ormai la pena non può più svolgere la funzione rieducativa che la costituzione prescrive, ma anche, indirettamente, quale “calmiere” per contenere l’eccessiva durata dei processi e dare così effettività al principio di ragionevole durata del processo.
La l. 9 gennaio 2019, n. 3, la cd legge “spazzacorrotti” (o legge Bonafede) varata sotto il primo Governo Conte, prevedeva, oltre all’inasprimento del trattamento sanzionatorio per i reati contro la pubblica amministrazione, la modifica delle norme del codice penale sulla prescrizione.
La legge Bonafede congelava il tempo della prescrizione dalla pronuncia della sentenza di primo grado, di condanna o di assoluzione. Peraltro, si prevedeva che le modifiche agli artt. 158, 159 e 160 c.p. entrassero in vigore un anno dopo le altre disposizioni della legge, perché, nel frattempo, si sarebbe dovuta varare una serie di altre modifiche normative, promesse allora dal Governo, come si ricorderà, proprio per rispondere alle accese critiche sollevate dalla riforma della prescrizione: modifiche che avrebbero garantito l’accelerazione dei processi ed evitato, appunto, che il venir meno dello “stimolo” della prescrizione potesse ulteriormente alimentare il lassismo dell’apparato, producendo l’effetto del “fine processo mai”.
Quella promessa non veniva mantenuta. La nuova disciplina della prescrizione entrava in vigore a gennaio del 2020, senza che della riforma sull’efficienza del processo si fosse neppure accennato: solo a tempo ormai scaduto, infatti, il Governo “Conte 2” presentava (eravamo ormai a marzo 2020) il d.d.l. AC 2435.
Con la successiva formazione del Governo Draghi, la Ministra della Giustizia Marta Cartabia, un anno dopo, insediava la Commissione Lattanzi per elaborare proposte di riforma in materia di processo penale e sistema sanzionatorio, e al contempo per rivedere la disciplina della prescrizione modificata da poco. Nel luglio del 2021 il Governo presentava quindi – avvalendosi del lavoro della Commissione – una serie di emendamenti al d.d.l. AC 2435. Varato in Commissione Giustizia ad agosto, il testo veniva approvato dalla Camera e poi dal Senato, in tempi record, anche sotto la spinta impressa dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, con il quale si dà attuazione al Next Generation EU (il ben noto programma europeo che sostiene, tra l’altro, la transizione digitale della pubblica amministrazione, ivi inclusa, evidentemente, anche l’amministrazione della giustizia).
La riforma Cartabia è un progetto di ampio respiro, che si propone di incidere non solo sul versante del diritto sostanziale e processuale, ma anche, finalmente, su quello organizzativo.
Così, se da un lato si è rimessa mano alla disciplina della prescrizione e si sono introdotte nuove disposizioni per assicurare, attraverso l’istituto dell’improcedibilità dell’azione, la ragionevole durata dei giudizi di impugnazione, dall’altro si sono progettati, con lo strumento della delega al Governo, interventi per migliorare la produttività della macchina.
Il primo obiettivo è quello ridurre, con una complessa e articolata serie di misure, il carico giudiziario.
In questo senso, la delega prevede di selezionare le regiudicande agendo sul fronte, delicatissimo, dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero; ma non solo: si prescrive l’ampliamento del novero dei reati a procedibilità condizionata e l’introduzione di una nuova disciplina sanzionatoria delle contravvenzioni. Allo stesso tempo, si opera puntando alla deflazione sia del dibattimento (con una decisa apertura alla giustizia riparativa, all’istituto della messa alla prova e ai giudizi speciali), sia delle impugnazioni (con l’ampliamento dei casi di inappellabilità delle sentenze e l’irrigidimento dei requisiti di ammissibilità dell’appello).
Ridotto l’input della macchina, si dovrà assicurare la sua definizione con modalità efficienti.
Su questo versante, le direttive della delega si muovono in più direzioni: l’accelerazione del giudizio ordinario (anche incrementando il ricorso al rito con citazione diretta davanti al tribunale in composizione monocratica); lo snellimento del modello procedimentale dei giudizi di impugnazione; la ridefinizione dei tempi delle indagini; la riscrittura delle regole sulle notificazioni.
Ma per restituire efficienza al sistema non ci si può, evidentemente, affidare solo alla riduzione della domanda e (peggio) dell’offerta.
Presupposto imprescindibile di un serio intervento di riorganizzazione del comparto resta quello (sono ormai decenni che se ne parla, invano) di un adeguato investimento in risorse, personali e materiali, che consentano al servizio giustizia di essere erogato senza rinunciare alla qualità.
E’ qui che si giocherà – anche grazie al fondamentale supporto finanziario dell’U.E. – una delle partite più importanti della riforma, che decide di scommettere sull’introduzione del processo telematico, sull’attuazione del piano per la transizione digitale e sull’avvio dell’ufficio del processo.
Pare persino superfluo ricordarlo: l’efficienza del processo penale deve essere assicurata mantenendo elevato lo standard qualitativo della risposta giudiziaria imposto dalle norme costituzionali e convenzionali.
Bisogna evitare il rischio che, per giungere più velocemente al risultato, si cada nella tentazione di tagliare le garanzie orizzontali e verticali del processo, sacrificando i beni più preziosi della giurisdizione: l’affidabilità della ricostruzione del fatto in primo grado (le garanzie orizzontali, appunto), e la verifica degli eventuali errori di diritto e di fatto del primo giudizio, attraverso le impugnazioni di merito e di legittimità (le garanzie cd verticali, non meno essenziali delle prime per ridurre al minimo accettabile il rischio dell’errore giudiziario).
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L’attenzione del giurista non può essere concentrata solo sulla riforma. Leggiamo dunque con grande interesse gli approfondimenti dedicati dalla Rivista al diritto penale dell’economia e dell’impresa, con i contributi di Davide Brusaporci (Riders e tutela penale dell’integrità psico-fisica: il “Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro” sul banco degli imputati?), di Andrea Boga (L’applicabilità del D. Lgs. 231/2001 ai partiti politici), di Andrea De Carlo e Piermatteo La Sala (Profili penalistici dello smart working), di Rossana Lugli (Il sindacato del giudice penale sul merito delle scelte imprenditoriali), di Giulia Titola (Doppio binario sanzionatorio in materia di abuso di informazioni privilegiate e délit d’initié: elementi di comparazione e condivise frizioni con il divieto di bis in idem) e di Marco Alessandro Morabito (Lo schema di decreto legislativo per l’attuazione della direttiva UE 2018/1673 sulla lotta al riciclaggio mediante il diritto penale: analisi e considerazioni); al tema della criminalità organizzata, con il commento di Maria Vittoria Maltarello (Mafie a Nord-Est: il Tribunale di Venezia riconosce l’associazione camorristica dei “Casalesi di Eraclea”); e alla materia processuale, con i saggi di Giuseppe dell’Anna e Livio Gucciardo (Il sequestro di documentazione acquisita dal server di impresa non residente in Italia), di Emilio Lorenzi (Distorsioni applicative della sospensione feriale dei termini processuali nei procedimenti per reati di criminalità organizzata) e di Francesca Rosso (Il difensore di fiducia domiciliatario dell’imputato alloglotto non ha l’obbligo di tradurre gli atti: verso un’interpretazione più garantista del diritto all’assistenza linguistica).