ARTICOLIDIRITTO PROCESSUALE PENALE

La Cassazione rifiuta l’estradizione verso la Russia per il rischio di trattamenti disumani o degradanti, anche alla luce del conflitto ucraino.

[a cura di Lorenzo Roccatagliata]

Cass. pen., Sez. VI, Sent. 24 marzo 2022 (ud. 1 marzo 2022), n. 10656
Presidente Di Stefano, Relatore Giorgi

Con la sentenza in epigrafe, la Corte di cassazione, Sezione sesta, ha rigettato una domanda di estradizione formulata dalla Confederazione russa nei confronti di una propria cittadina.

1. La richiesta della Russia.

Lo Stato russo aveva formulato domanda di estradizione nei confronti di una propria cittadina, già appartenente ai servizi di sicurezza del KGB, raggiunta da mandato di cattura emesso il 11 febbraio 2021 dal Tribunale di Meshchanskiy in ordine al reato di “produzione, vendita, stoccaggio o vendita di prodotti, esecuzione di lavori o prestazioni di servizi che non soddisfano i requisiti di sicurezza” asseritamente commesso in Russia nel 2018. 

Nell’ambito del procedimento, la Corte di appello aveva inoltrato tramite il Ministero una richiesta di informazioni allo Stato richiedente circa le condizioni carcerarie in Russia, onde verificare la eventuale ricorrenza della condizione ostativa dell’estradizione prevista dall’art. 698, comma 1, c.p.p. (“l’imputato o il condannato verrà sottoposto (…) a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona”), che impone il rigetto della richiesta ai sensi dell’art. 705, comma 2, lett. c), c.p.p.

A tale richiesta seguiva la trasmissione di una relazione del Procuratore Federale russo, che garantiva la insussistenza di tale condizione. Per conseguenza, la Corte territoriale ha ritenuto insussistente il pericolo di atti persecutori e discriminatori e soddisfacenti le condizioni di detenzione presso il Paese richiedente, così accogliendo la richiesta di estradizione, nonostante l’allegazione da parte della difesa di elementi contrari.

2. I motivi di ricorso.

Il ricorso per Cassazione si è fondato sulla argomentazione di numerosi vizi di motivazione. Per ciò che qui rileva, la ricorrente lamentava il vizio di motivazione con riguardo:

a. alle condizioni carcerarie dello Stato richiedente. L’autorità russa aveva rappresentato l’insussistenza di carenze nel proprio sistema carcerario e il rispetto dei diritti dei detenuti, in contrasto con numerosi rapporti di associazioni non governative.
Anche dalle statistiche penali annuali del Consiglio di Europa per l’anno 2020 emerge che la Russia è il Paese europeo con il maggior numero di detenuti in termini assoluti. Numerose sono altresì le procedure attivate a livello europeo nei confronti della Russia per le pessime condizioni degli istituti carcerari e per denunce di torture, trattamenti inumani e violazioni dei diritti fondamentali, sfociate anche in condanne per violazione dell’art. 3 CEDU.
Con particolare riferimento ai due istituti penitenziari indicati dalla Autorità russa ove la ricorrente avrebbe dovuto essere ristretta la difesa ha depositato copiosa documentazione comprovante le pessime condizioni, ignorata dalla sintetica pronuncia della Corte territoriale.

b. al mancato accoglimento della deduzione secondo cui la ricorrente, se reclusa con i detenuti ordinari, avrebbe potuto essere sottoposta a trattamenti inumani o degradanti, in ragione della sua trascorsa appartenenza al KGB, che avrebbe dovuto comportare l’individuazione di un carcere – o almeno di un blocco all’interno dello stesso – separato rispetto ai detenuti ordinari, che non risultava presente nei due istituti individuati dall’Autorità russa; 

c. al trattamento sanzionatorio cui avrebbe potuto essere sottoposta la ricorrente quanto alla prevista pena dei lavori forzati fino a cinque anni prevista dall’art. 238, comma 3 del codice penale russo in alternativa alla reclusione fino a dieci anni. Ciò contrasta con l’art. 4, comma 2, CEDU e con l’art. 5, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, oltre ad evocare un trattamento disumano idoneo a determinare una palese violazione dei diritti fondamentali della persona, che la Corte di appello avrebbe dovuto accertare.

3. Le motivazioni della Cassazione.

Come si è anticipato, la Corte ha accolto il ricorso, ritenendo fra l’altro fondati i motivi appena illustrati.

In relazione alla esclusione del pericolo di trattamento carcerario in violazione dei diritti fondamentali, secondo il Collegio la Corte di appello non si è “adeguatamente confrontata con le allegazioni difensive che, sul punto specifico, erano sorrette da una documentazione necessitante di verifica. L’impegno motivazionale non è in tal caso limitabile, per escluderne la rilevanza, al solo generico richiamo alla relazione ministeriale. L’estradanda ha infatti adempiuto all’onere di allegare elementi oggettivi, precisi, attendibili e aggiornati in merito alle condizioni di detenzione vigenti nello Stato richiedente, idonei a fondare il timore che la sua estradizione preluda a un trattamento incompatibile con i diritti fondamentali della persona (…) non superati dal generico richiamo contenuto nella sentenza impugnata alle ‘rassicuranti informazioni’ pervenute dalla Autorità giudiziaria russa. Tali valutazioni si rivelano ancora più pregnanti con riferimento ai recenti drammatici sviluppi degli eventi bellici in Ucraina”. 

Sotto altro profilo, la Corte ha osservato che “in tema di estradizione per l’estero, ai fini dell’accertamento della condizione ostativa prevista dall’art. 698, comma 1, cod. proc. pen., la Corte di appello è tenuta a verificare se la pena prevista dalla legislazione dello Stato richiedente, al di là della sua denominazione formale, consista effettivamente in un trattamento che violi i diritti fondamentali della persona (…). In tal senso la verifica effettuata dalla Corte di appello in ordine alla tipologia di pena prevista per il reato oggetto della estradizione processuale risulta carente. La nota inviata allo Stato richiedente dal Ministero della giustizia italiano aveva ad oggetto soltanto le informazioni integrative relative al trattamento carcerario riservato all’estradanda. Andava invece accertato da parte della Corte di appello se la pena prevista dal codice penale russo in alternativa a quella detentiva – al di là della traduzione in lingua italiana della sua denominazione, (‘lavori forzati’) che sembra evocare un trattamento disumano e degradante – consista effettivamente in un trattamento che violi i diritti fondamentali della persona, come tale ostativo alla estradizione”.