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Caso Regeni: il ricorso per Cassazione della Procura contro la decisione del GUP (conforme a quella della Corte di Assise) di sospendere il procedimento ex art. 420-quater c.p.p.

[a cura di Guido Stampanoni Bassi]

Segnaliamo ai lettori, in merito al procedimento sulla morte di Giulio Regeni (avvenuta al Cairo nel 2016), il ricorso per Cassazione presentato dalla Procura di Roma contro l’ordinanza con cui il GUP del Tribunale di Roma – di fronte al quale l’udienza preliminare era ripresa dopo la decisione della Corte di Assise di dichiarare la nullità della declaratoria di assenza e del conseguente decreto che dispone il giudizio – preso atto della impossibilità di effettuare le notifiche personalmente agli imputati, disponeva la sospensione del procedimento, ex art. 420-quater c.p.p., disponendo, contestualmente, nuove ricerche.

Ad avviso della Procura, l’ordinanza sarebbe affetta da abnormità in quanto ha determinato, assieme ai provvedimenti presupposti di cui costituisce effetto consequenziale, la stasi del procedimento e l’impossibilità di proseguirlo.

Dopo essersi soffermata sull’astratta ammissibilità, quale atto abnorme, della ordinanza di sospensione del processo ex art. 420 quater c.p.p. (tema analizzato alla luce della più recente giurisprudenza), la Procura osserva come il primo provvedimento a cagionare lo stallo del procedimento sia costituito dalla ordinanza in parola (ossia quella emessa dal GUP), non potendo in alcun modo ritenersi produttiva degli stessi effetti l’ordinanza della Corte d’Assise di Roma del 14 ottobre 2021: “con quest’ultimo atto, infatti, com’è evidente, la Corte ha causato non uno stallo del procedimento bensì una regressione alla fase della udienza preliminare; regressione non impugnabile in assenza di una esplicita previsione legislativa ed in assenza di un effetto di stasi del procedimento“.

Nondimeno – prosegue il ricorso – “la decisione della Corte, quale giudice del dibattimento, ha, però, sortito un effetto coercitivo, ex art. 28 c.p.p., sulla decisione del GUP di Roma che, nel corso della nuova udienza preliminare, ha ritenuto di essere vincolato alla decisione della Corte d’Assise in quanto non è discutibile in questa sede, perché in caso di “contrasto” tra il giudice dell’udienza preliminare e il giudice del dibattimento prevale la decisione di quest’ultimo ex art. 28 c.p.p.“.

Si è, dunque,  in presenza – precisa la Procura  – di una “abnormità bifasica: in un primo provvedimento, quello della Corte d’Assise, si stabiliva il principio di diritto, qui ritenuto errato, cui il GUP doveva attenersi; con un secondo provvedimento, quello del GUP, si produceva, in assenza di fatti nuovi rilevanti alla luce del principio di diritto statuito dalla Corte d’Assise, l’effetto di blocco del procedimento. Siamo, quindi, in presenza di una abnormità consequenziale bifasica perché posta in essere in due momenti distinti (di cui il primo non autonomamente impugnabile) e che, pur cronologicamente separati, sono strettamente connessi, quanto agli effetti prodotti, perché risultato della somma degli stessi“.

Ciò chiarito da un punto di vista della ammissibilità dell’impugnazione, la Procura passa ad esaminare il merito della pronuncia della Corte di Assise, ritenuta, appunto, “il presupposto interpretativo vincolante della decisione del GUP” (sul cui contenuto si rinvia a G. Stampanoni Bassi, Caso Regeni: l’ordinanza con cui la Corte di Assise di Roma ha restituito gli atti al GUP non essendoci prova della conoscenza del procedimento da parte degli imputati egiziani).

La Corte ritiene – si legge nel ricorso – di per poter affermare che l’imputato si è “volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo” solo se risulta “la prova certa della conoscenza, da parte degli imputati della pendenza di un processo a loro carico cioè della vocatio in iudicium davanti al GUP (e poi davanti a questa Corte), con riferimento alla specifiche imputazioni elevate a loro carico”.

Ad avviso della Procura, si tratterebbe di una vera “probatio diabolica” e di una insanabile contraddizione logica: per affermare che l’imputato si è sottratto alla conoscenza degli atti, si deve provare che ne abbia avuto conoscenza. In tal modo – si prosegue – la Corte d’Assise giunge a negare ogni rilevanza processuale alla riconosciuta conoscenza, nel caso in esame, da parte degli imputati, dell’esistenza di un procedimento penale a loro carico, avente ad oggetto gravi reati, ai danni del ricercatore Giulio Regeni; conoscenza che, invece, doveva indurre il giudicante a inquadrare gli imputati tra i “finti inconsapevoli”.

Al contrario, una corretta interpretazione dell’art. 420-bis, comma 2, c.p.p., dovrebbe perimetrare la disposizione del secondo comma, ultima ipotesi, in modo tale da attribuirgli una autonoma rilevanza rispetto all’ipotesi della certezza della conoscenza del procedimento. Autonoma rilevanza che “può essere raggiunta grazie alla individuazione della sua reale natura giuridica che è quella di costituire, “la volontaria sottrazione alla conoscenza del procedimento”, una clausola “anti-abusiva” di ispirazione costituzionale (cfr. art. 111 Cost.) e di derivazione sovranazionale, che vuole evitare che l’imputato possa profittare, in qualunque sede, di un suo comportamento in forza del quale non ha attuato alcuno sforzo collaborativo con l’Autorità Giudiziaria e si è consapevolmente posto in condizione di non conoscere il processo a suo carico“.

A conferma di ciò, la Procura cita anche quanto, da ultimo, affermato dalle Sezioni Unite 14 aprile 2022  n. 14573 in ordine al diritto dell’accusato alla notifica delle azioni intentate nei suoi confronti: “detto diritto non può, però, considerarsi assoluto, potendosi ammettere limitazioni dettate dall’esigenza di salvaguardare la corretta amministrazione della giustizia dall’abuso dei diritti della difesa o dalla volontaria rinuncia di partecipare al processo da parte dell’imputato.”

Tale ricostruzione – prosegue la Procura – potrà costituire ausilio per una corretta interpretazione logico-sistematica del dato normativo (“risulti comunque con certezza che lo stesso è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo”) anche se risulta, comunque, necessario approfondire quale contenuto debba riconoscersi alla condotta di sottrazione.

Ebbene, fermo restando che, ai sensi dell’art. 12 delle preleggi “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole”, il contenuto semantico del termine “sottrarsi” nella lingua italiana “sembra avere un’accezione negativa, genericamente dispregiativa. Per coglierne meglio il significato può essere utile esaminare espressioni utilizzate come sinonimi: venir meno a un obbligo, esimersi da un impegno, abdicare ai propri doveri, venir meno alle proprie responsabilità, mancare ai propri compiti, liberarsi da un onere. La condotta delineata dal legislatore indica, pertanto, non una condotta neutra ma una omissione, il venir meno ad un atto dovuto; omissione che sembra possa trovare fondamento nel generalissimo principio della sottomissione di tutti i cittadini alla giurisdizione“.

Gli imputati “ben avrebbero potuto, in quanto soggetti qualificati, dall’essere ufficiali di Polizia Giudiziaria e, quindi, esperti dei meccanismi processuali, attivarsi per rendersi presenti al processo anche in assenza di collaborazione da parte della autorità egiziane e, perciò, di una formale notifica di invito ad eleggere domicilio. Definita la condotta in termini omissivi, appare chiaro che nessuna azione positiva l’interprete deve richiedere alla ricostruzione dei fatti; ed infatti, un imputato più sarà abile, meno lascerà traccia della sua volontà di sottrarsi al processo; maggiore sarà la biografia criminale dell’imputato, meno elementi, in fatto, saranno reperibili del suo volersi sottrarre al procedimento“.

In tal senso – si conclude – cioè per una lettura che ritiene, ad oggi, sufficiente per giungere alla dichiarazione di assenza un atteggiamento colposo, si è espressa anche la relazione finale della Commissione di studio “Lattanzi”, del 24 maggio 2021, che rileva come la disposizione del 420 bis c.p.p. conferisce al giudice “la legittimazione a svolgere il processo in assenza dell’imputato … anche in presenza di meri indici di conoscenza del procedimento (non già del processo), se accompagnati da un atteggiamento colposo del medesimo imputato rispetto alla mancata conoscenza della pendenza del processo”.

Redazione Giurisprudenza Penale

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