La Corte costituzionale su poteri giudiziali ex art. 521 co. 2 c.p. e aggravante non contestata: infondata la questione di legittimità costituzionale
in Giurisprudenza Penale Web, 2022, 11 – ISSN 2499-846X
Corte costituzionale, 15 novembre 2022 (ud. 5 ottobre 2022), n. 230
Presidente S. Sciarra, Redattore F. Viganò
Si segnala la sentenza della Corte costituzionale n. 230 del 2022, con cui il giudice delle leggi ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 521 comma 2, c.p.p., nella parte in cui non consente al giudice di restituire gli atti al pubblico ministero qualora sia ritenuta sussistente una circostanza aggravante non contestata dall’organo di accusa (Trib. Palermo, Ufficio GIP, ordinanza del 14/10/2021, in G.U. n. 3 del 2022 – prima serie speciale).
In particolare, nel caso posto all’attenzione del giudice rimettente, il pubblico ministero aveva contestato soltanto ad alcuni imputati la recidiva reiterata aggravata, tralasciando questo aspetto circostanziale con riferimento a uno degli imputati, pure attinto da un numero elevatissimo di precedenti per delitti non colposi anche particolarmente gravi.
Argomentava il giudice palermitano in primo luogo rappresentando l’impossibilità di applicare nel caso di specie l’art. 521 co. 2 c.p.p. siccome esso non consente la restituzione degli atti al pubblico ministero per la contestazione dell’aggravante negletta, pena l’abnormità dell’ordinanza (cfr. Cass. sez. I, 12 maggio 2015, n. 25882; v. anche Cass. sez. I, 5 luglio 2011, n. 30498); in secondo luogo, rilevava il potenziale contrasto dell’art. 521 co. 2 c.p.p. con gli artt. 3 e 112 Cost.
Sotto il primo profilo (art. 3 Cost.), il rimettente denuncia che il carattere ostativo della norma censurata sortisce l’effetto di generare una disparità di trattamento tra casi almeno analoghi, paralizzando irragionevolmente la possibilità per il giudice di restituire gli atti all’accusa sollecitandola a contestare l’aggravante così da proporzionare il trattamento sanzionatorio irrogabile alla concreta gravità del fatto.
Sotto il secondo versante, ritiene il rimettente che la norma violi il principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.), poiché ne limita l’esplicitazione ai soli casi di diversità degli elementi essenziali del fatto, escludendo dal raggio d’azione gli elementi circostanziali.
La Consulta ha dichiarato la questione di legittimità non fondata.
Dapprima, ha confermato che, ad ordinamento invariato, costituisce atto abnorme la restituzione degli atti al pubblico ministero nel caso di omessa contestazione dell’aggravante (più specificamente: la recidiva) ritenuta sussistente nel caso di specie. Il giudice, dopo aver rilevato la configurabilità dell’aggravante non contestata, non può far regredire il procedimento e deve decidere al netto di quella circostanza, limitandosi a seguire la traccia accusatoria redatta dal pubblico ministero.
Il legislatore ha invece consentito la regressione della procedura nel caso in cui il fatto risulti diverso da come contestato, per far fronte alla imbarazzante sequela di effetti che conseguirebbe in mancanza della norma: il giudice dovrebbe assolvere l’imputato e il pubblico ministero non potrebbe riesercitare l’azione penale, pena la violazione del principio di ne bis in idem con sacrificio dell’interesse statuale all’accertamento delle responsabilità penali.
L’interrogativo da sciogliere è piuttosto se risulti irragionevole o arbitraria la scelta del legislatore di non estendere la portata della norma sino a ricomprendere le aggravanti non contestate. La Consulta evidenzia, sotto questo profilo, la differenza fondamentale tra le due ipotesi in esame.
Ove non fosse previsto il potere del giudice di restituire gli atti al pubblico ministero per fatto diverso, gli effetti sarebbero platealmente irragionevoli, compendiandosi nella totale impunità, ora e per il futuro, di un soggetto responsabile di un fatto-reato.
L’attuale vulnus contenutistico della norma, che non annovera la mancata contestazione di una circostanza aggravante ritenuta esistente, consente comunque al giudice di condannare per il reato commesso, corrispondente all’ipotesi accusatoria, collocandosi nel crocevia tra più interessi costituzionalmente rilevanti: a) la ragionevole durata del processo, poiché non sarebbe indolore sotto il profilo dell’allungamento dei tempi processuali la restituzione degli atti alla procura; b) il principio di terzietà e imparzialità del giudice, che, anziché porsi in maniera equidistante dalle parti e valutare la rispondenza alla verità processuale della contestazione elevata, assumerebbe una prospettiva eccessivamente lungimirante, pretendendo l’adeguamento del capo di imputazione anche sotto il profilo degli elementi accidentali.
A giudizio della Corte costituzionale, insomma, la scelta legislativa non appare irragionevole e violativa dell’art. 3 Cost., poiché si colloca in un «punto di equilibrio non implausibile tra gli opposti interessi e principi in gioco».
La norma, ancora nell’ottica della sapiente ponderazione degli interessi costituzionali in gioco, è reputata coerente altresì col principio di cui all’art. 112 Cost., noto come principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. In particolare – argomenta la Corte – il principio in parola costituisce precondizione non soltanto dell’attuazione del principio di legalità, secondo il quale devono essere represse le condotte violative della legge penale, ma anche dell’attuazione del principio di “legalità nel procedere”.
Per garantire l’effettività di tali parametri fondamentali, sono previsti – disseminati nel sistema processuale – diversi meccanismi di controllo del giudice sulle decisioni dell’organo di accusa, tra i quali si inserisce proprio l’istituto di cui all’art. 521 co. 2, c.p.p.; è difatti escluso che il pubblico ministero sia il dominus assoluto dell’azione penale, poiché i poteri conferiti al giudice di incidere su di essa, «anche contro l’avviso del pubblico ministero», contribuiscono ad assicurare la corretta applicazione della legge penale ai destinatari.
Tuttavia, spiega la Corte, anche in questo caso l’ingerenza del giudice deve essere sapientemente perimetrata dal legislatore, in modo da scongiurare eccessi. Occorre: 1) che il potere giudiziale sia contenuto in modo da non svuotare del tutto «lo spazio valutativo del pubblico ministero sulla concreta configurazione dell’imputazione»; 2) tenere in conto l’aspettativa dell’imputato di essere giudicato e predisporre la propria strategia processuale rispetto all’imputazione così come ex ante disegnata dal pubblico ministero; 3) che non sia eccessivamente vulnerato il dovere di terzietà e imparzialità del giudice, che verrebbe meno – con argomentazioni non dissimili da quelle svolte dal giudice delle leggi in relazione alla mancata violazione dell’art. 3 Cost. – qualora il giudicante si spingesse oltremodo a perseguire l’adeguamento dell’imputazione ai fatti provati anziché limitarsi a verificare la corrispondenza tra la contestazione e la responsabilità accertata.
In conclusione, non è fondata la questione di costituzionalità dell’art. 521 co. 2 c.p.p., nella parte in cui non consente al giudice di restituire gli atti al pubblico ministero in caso di omessa contestazione di circostanza aggravante ritenuta sussistente all’esito della istruttoria.
Come citare il contributo in una bibliografia:
F. Lombardi, La Corte costituzionale su poteri giudiziali ex art. 521 co. 2 c.p. e aggravante non contestata: infondata la questione di legittimità costituzionale, in Giurisprudenza Penale Web, 2022, 11