Caporalato (art. 603-bis c.p.): la Cassazione esclude profili di incostituzionalità (sia per il trattamento sanzionatorio che per la tecnica normativa utilizzata)
[a cura di Guido Stampanoni Bassi]
Cassazione Penale, Sez. IV, 7 marzo 2023 (ud. 30 novembre 2022), n. 9473
Presidente Piccialli, Relatore Di Salvo
In tema di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” (art. 603-bis c.p., cd. “caporalato”), segnaliamo ai lettori al pronuncia con cui la quarta sezione penale della Corte di Cassazione, nel dichiarare manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente, ha affrontato i due profili attinenti al trattamento sanzionatorio e alla determinatezza della fattispecie.
Quanto al primo aspetto – posto in relazione alla fattispecie di cui all’art. 22, commi 12 e 12 bis, d. lgs. 286/98 – i giudici hanno ricordato come, secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale, «le scelte legislative in materia sanzionatoria penale sono censurabili, in sede di sindacato di legittimità costituzionale, solo ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio».
Per quanto attiene alla problematica in disamina – si legge nella pronuncia – «non è certamente ravvisabile alcuna manifesta irragionevolezza o alcun arbitrio, poiché la norma incriminatrice di cui all’art. 603 bis cod. pen. tutela il bene giuridico della dignità del lavoratore e risponde alla ratio di reprimere il fenomeno del c.d. “caporalato” e di impedire che i lavoratori, e dunque i soggetti appartenenti alle fasce economico sociali più deboli, possano venire assoggettati a condizioni di sfruttamento». La risposta sanzionatoria è, quindi, «modellata sulle esigenze di contrasto ad una fenomenologia assai frequente nella prassi, che lede un interesse costituzionalizzato dall’art. 36 Cost. e che si iscrive nell’orizzonte più generale della tutela della dignità umana nell’esercizio dell’attività lavorativa, fondamentale momento di esplicazione della personalità dell’individuo».
Quanto, poi, al paragone con le disposizioni di cui all’art. 22, commi 12 e 12 bis, d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286, la Corte ha evidenziato come le stesse «attengano ad un ambito più circoscritto, e cioè a quello della regolamentazione del fenomeno dell’immigrazione, e rispondano alla ratio di impedire lo sfruttamento degli immigrati extracomunitari clandestini. Tali disposizioni hanno, dunque, un oggetto giuridico diverso e più delimitato, che impedisce l’utilizzo di esse come tertium comparationis, disciplinando situazioni assai eterogenee».
Quanto al secondo profilo, i giudici hanno preso le mosse ricordando come «il principio di tassatività e di determinatezza, importante corollario del principio di legalità, concerna le modalità di formulazione della norma penale, sancendo l’obbligo, in capo al legislatore, di delineare con assoluta precisione gli elementi costitutivi della fattispecie, incentrando l’incriminazione su fatti oggettivamente accertabili e dimostrabili nel processo, attraverso le metodologie e i parametri offerti dalla scienza e dall’esperienza, in modo da circoscrivere gli spazi di discrezionalità dell’Autorità giudiziaria e da garantire la certezza del diritto, evitando il rischio di arbitri del potere giudiziario».
Ebbene, per quanto attiene all’art. 603 bis cod. pen. – prosegue la suprema Corte – «è da escludersi ogni vulnus ai principi di tassatività e determinatezza, poiché la norma fa riferimento agli indici di cui al comma 3 proprio al fine di riempire di contenuto concreto il concetto di sfruttamento e la giurisprudenza ha chiarito che si tratta di meri “sintomi” e, cioè, di indizi che il giudice valuta al fine di stabilire se ricorra o meno la predetta condizione di sfruttamento, avendo il legislatore inteso agevolare i compiti ricostruttivi del giudice, orientando l’accertamento in quei settori – retribuzione, condizioni di lavoro, condizioni alloggiative etc. – che rappresentano gli ambiti privilegiati di emersione della condotta di sfruttamento».
Dunque, «gli indici costituiscono dei criteri – guida per l’interprete che non precludono l’individuazione di altre condotte che integrino la fattispecie di abuso, posto che essi costituiscono meri indicatori della sussistenza del fatto tipico, che ben può risultare aliunde, purché si concreti l’assoggettamento a condizioni di lavoro di cui si subisce l’imposizione».
In conclusione, si è in presenza di «un’architettura normativa e concettuale pienamente in linea con il dettato costituzionale».