Riforma Cartabia: riflessioni preliminari in materia di pene sostitutive
in Giurisprudenza Penale Web, 2023, 5 – ISSN 2499-846X
Come noto, la riforma Cartabia è intervenuta incisivamente in materia di pene sostitutive, imponendo un cambio di forma mentis, di cultura e di approccio pratico a tutti gli operatori del diritto, i quali, tuttavia, spesso paiono averne sottovalutata la portata innovativa.
Anzitutto, è stato ampliato significativamente il novero delle possibilità di sospensione dell’ordine di esecuzione, ai sensi dell’art. 656, comma 5, c.p.p., atteso che l’art. 545 bis c.p.p. consente l’applicazione di una pena sostitutiva in tutti i casi in cui sia stata comminata la detenzione fino a quattro anni (in luogo degli originari due anni).
La modifica ha inciso inevitabilmente sui rapporti esistenti tra la fase di cognizione e quella esecutiva, anticipando alla fase “di merito” la scelta relativa alle modalità di esecuzione della pena.
Tale aspetto appare di non di poco momento, dacché è di gran lunga preferibile che sia il giudice della cognizione – il quale meglio conosce il profilo dell’imputato – a stabilire le modalità con cui la pena dovrà essere eseguita, piuttosto che la magistratura di sorveglianza, che si basa su un’asettica valutazione cartolare.
Per il giudice della cognizione, invero, è stato cucito un ruolo affatto nuovo, non più circoscritto alla quantificazione della pena, bensì esteso alle modalità con cui quest’ultima dovrà essere eseguita, al fine, evidentemente, di ridurre la mole di lavoro della magistratura di sorveglianza nonché di deflazionare l’appello.
Se da un lato, appunto, il nuovo istituto mira a ridurre il carico della magistratura di sorveglianza, dall’altro, è destinato inevitabilmente ad aumentare il lavoro del sempre più oberato UIEPE [1].
L’Ufficio, secondo le intenzioni del legislatore, assume un ruolo centrale in almeno tre[2] della quattro possibili pene sostitutive.
L’art. 545 bis c.p.p. prevede che il giudice, al fine di decidere sulla sostituzione della pena detentiva e sulla pena sostitutiva – nonché di determinare gli obblighi e le prescrizioni – possa richiedere all’UEPE tutte le informazioni necessarie circa le condizioni dell’imputato.
Ma vi è di più. Il giudice può altresì chiedere – per il caso in cui ritenga di applicare la semilibertà, la detenzione domiciliare ovvero il lavoro di pubblica utilità – di predisporre il programma di trattamento.
A ciò si aggiunga che anche il difensore potrà trasmettere all’UEPE tutta la documentazione che ritenga necessaria ai fini della sostituzione.
Di fronte al sovraccarico che si prospetta per gli uffici di esecuzione penale esterna, ben si possono comprendere quali siano le ragioni sottese alla ritrosia dei giudici ad applicare le pene sostitutive, così come modificate dalla Riforma Cartabia.
Ulteriore aspetto che pare non convincere i Tribunali – soprattutto le Corti d’Appello, per cui si pone il problema di riorganizzare i collegi – è rappresentato dalla prospettazione, quando non sia possibile decidere immediatamente, di un’ulteriore apposita udienza, non oltre sessanta giorni, ai fini della decisione sull’applicazione o meno di una pena sostitutiva[3].
Alla luce dei tempi non proprio snelli dell’UIEPE, appare utopistico che, al momento della decisione, il giudice disponga già della relazione e del programma di trattamento, di talché risulta inevitabile detto secondo “appuntamento”, che, tuttavia, rischia di dilatare ulteriormente i tempi della cognizione.
L’art. 58 L. 689/1981 mette a disposizione del giudice degli strumenti che consentono di evitare l’attivazione del procedimento di applicazione delle pene sostitutive, nella misura in cui afferma che quest’ultimo dovrà tenere conto dei criteri di cui all’art. 133 c.p.p., al fine di stabilire se le medesime risultino più idonee alla rieducazione del reo nonché se assicurino la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati. Il giudice potrà, inoltre, rifiutare l’applicazione di una pena sostitutiva laddove ritenga, alla luce di fondati motivi, che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato.
È evidente che i criteri testé elencati risultino inesorabilmente ancorati ad un altissimo tasso di discrezionalità in capo all’organo giudicante.
Certo, ai sensi del combinato disposto degli artt. 546 c.p.p. e 61 L. 689/1981, quest’ultimo avrà un dovere motivazionale in relazione alle ragioni sottese alla decisione di non applicare pene sostitutive, su cui, certamente, la difesa potrà costruire un motivo di appello.
La soluzione, pertanto, al fine di contemperare tutte le esigenze, potrebbe essere quella di stabilire – di concerto tra tutti gli operatori del diritto – linee guida da applicare nel corso dei processi.
Ciò, ad esempio, è successo a Milano, laddove è stato siglato uno “schema operativo” tra Corte d’Appello, Tribunale, Tribunale di Sorveglianza, Ordine degli Avvocati, Camera Penale e UIEPE.
Al difensore è richiesto di farsi parte diligente – mediante produzioni documentali complete – al fine di rendere più snella l’istruttoria preliminare, con l’intento di evitare o, quantomeno, di ridurre al minimo, l’intervento del già oberato UIEPE, il quale – ai sensi dell’art. 55 L. 689/1981 – resta indispensabile solo in caso di richiesta della semilibertà sostitutiva.
In tale prospettiva, inoltre, si punta ad evitare la seconda udienza c.d. “di sentencing”.
Ma che cosa si richiede, in particolare, al difensore? Anzitutto, è tenuto a munirsi tempestivamente – leggasi, preventivamente, con buona pace del cliente – di procura speciale.
Il giudice, invero, in caso di assenza fisica dell’imputato al momento della lettura del dispositivo ovvero di assenza di procura speciale, non è tenuto a concedere un differimento dell’udienza.
Lo schema operativo suggerisce altresì al difensore di domandare, già in sede di conclusioni, l’applicazione di una o più pene sostitutive. Medesime considerazioni valgono in caso di applicazione della pena su richiesta delle parti – che, come detto, costituisce la sede elettiva di applicazione del novellato istituto, dacché, anche in questo caso, gioca un ruolo essenziale il consenso dell’imputato.
All’avvocato si richiede inoltre – nella suddetta ottica di collaborazione – di depositare la documentazione necessaria a sostegno della propria richiesta, onde fornire al giudice gli elementi necessari a decidere.
A titolo esemplificativo, in caso di semilibertà e detenzione domiciliare: documentazione attestante la legittima disponibilità dell’abitazione ed il consenso dei conviventi; contratto di lavoro e buste paga recenti; iscrizione a corsi di studio/formazione, certificazioni attinenti a disturbi e/o percorsi di cura; indicazione delle esigenze di uscita dal domicilio, nonché degli orari di uscita e rientro.
In caso di richiesta di lavoro di pubblica utilità sostitutivo, invece, lo schema operativo suggerisce al difensore di individuare previamente l’ente e di produrne anticipatamente la lettera di disponibilità, nonché il programma di lavoro stabilito di concerto con quest’ultimo.
In caso di pena pecuniaria sostitutiva, la documentazione dovrà attenere alle condizioni di reddito ed al patrimonio, nonché dovrà consentire al giudice di commisurare il valore giornaliero della pena sostitutiva e disporre l’eventuale rateizzazione (potrà, pertanto, essere utile produrre il contratto di locazione corredato dalle spese mensili, l’eventuale contratto di mutuo ovvero di finanziamento in essere, una visura camerale…).
Tornando agli aspetti che – in seguito alle novità Cartabia – rendono appetibili le pene sostitutive, non si può non menzionare, per quanto attiene, in particolare, al lavoro di pubblica utilità, il fatto che – a differenza della MAP e della sospensione condizionale della pena – quest’ultimo è reiterabili, in quanto non sussiste il limite della concessione per non più di una volta.
Nelle battute conclusive del presente contributo, pare opportuno, da ultimo, un accenno alla fase dell’appello, ferma restando l’opportunità per il difensore di farsi parte diligente. Ciò, a maggior ragione, attesa la necessità di ricostituzione del collegio per l’eventuale seconda udienza di sentencing.
Va da sé che, laddove la condanna di primo grado sia intervenuta prima dell’entrata in vigore della Riforma Cartabia, la parte potrà formulare la domanda o nell’atto di appello – costruendo un motivo ad hoc – ovvero nelle proprie conclusioni, scritte o orali.
Laddove, invece, la condanna di primo grado sia intervenuta nella vigenza della Riforma Cartabia, si aprono due scenari: il primo riguarda il caso in cui la parte non abbia prestato il consenso alla sostituzione della pena detentiva e, in seguito ad ulteriori riflessioni, si determini a chiederla in appello. In tal caso, a parere di chi scrive, sarebbe preclusa la possibilità di formulare, per la prima volta in tale sede, la richiesta di sostituzione, posto che non si vede quale capo della sentenza potrebbe essere impugnato e, soprattutto, quali motivi potrebbero essere dedotti.
Diverso, invece, è il caso in cui il giudice di primo grado abbia ritenuto di non applicare una pena sostitutiva, pur avendo condannato a pena detentiva senza concedere la sospensione condizionale. In questo caso è evidente che, invece, sarà possibile richiederla in appello mediante l’impugnazione del capo della sentenza di primo grado contenente le motivazioni sul diniego.
[1] La Riforma Cartabia, come noto, ha altresì di molto aumentato le ipotesi in cui si può ricorrere alla messa alla prova, ambito in cui l’UEPE ha, del pari, un ruolo di primo piano.
[2] Trattasi della semidetenzione, della detenzione domiciliare e del lavoro di pubblica utilità.
[3] La doppia udienza, che si rifà al modello bifasico del sentencing anglosassone, è prevista, non solo in caso di rito ordinario, bensì anche in caso di patteggiamento – sede elettiva di applicazione del novellato istituto – dall’art. 448, comma 1 bis, c.p.p..
Come citare il contributo in una bibliografia:
F. Grosso, Riforma Cartabia: riflessioni preliminari in materia di pene sostitutive, in Giurisprudenza Penale Web, 2023, 5