Processo “Ruby-ter”: le motivazioni del Tribunale di Milano
[a cura di Guido Stampanoni Bassi]
Tribunale di Milano, Sez. VII penale, 15 maggio 2023 (ud. 15 febbraio 2023), n. 2246
Presidente Marco Tremolada, Relatore Silvana Pucci
Segnaliamo, in considerazione dell’interesse mediatico della vicenda, il deposito delle motivazioni della sentenza del Tribunale di Milano nel cd. caso “Ruby-ter”.
In punto di diritto, il Tribunale si è soffermato sulla questione relativa alla «qualifica soggettiva da riconoscere alle persone in ipotesi d’accusa corrotte per rendere falsa testimonianza nei processi cd. Ruby 1 e Ruby 2. La corruzione in atti giudiziari e la falsa testimonianza, infatti, sono reati propri e possono configurarsi solo se la persona accusata dell’aver accettato la promessa o l’offerta di denaro o altra utilità per rendere dichiarazioni false o reticenti, volte a favorire o danneggiare una parte, sia un testimone e, quindi, un pubblico ufficiale».
Si è poi approfondito il potere-dovere del giudice di sindacare la qualità del soggetto esaminato: «poiché la qualifica di testimone-pubblico ufficiale è uno degli elementi costitutivi dei reati di corruzione e falsa testimonianza, è dall’accertamento di tale qualità che si deve partire per verificare la sussistenza dei delitti medesimi».
Nell’ambito del processo penale – si legge nella pronuncia – «le disposizioni che tratteggiano lo statuto del dichiarante sono il punto di equilibrio individuato nella ponderazione di interessi contrapposti: da un lato, la tutela del diritto al silenzio (corollario del diritto di difesa) e, dall’altro, la centralità delle acquisizioni processuali avverso il rischio di dispersione dei mezzi di prova (espressione dei principi di contraddittorio e oralità)».
Il Tribunale passa poi ad esaminare la nozione di “testimone” (assistito) in relazione all’ipotesi di soggetti indagati o imputati di reati connessi affermando come «la qualità di testimone non discenda solo dal fatto di essere chiamati a rendere dichiarazioni in un procedimento penale, esistendo posizioni incompatibili con tale veste: anzitutto quella di indagato di reato connesso; quest’ultimo, peraltro, con l’assistenza di un difensore e nella concorrenza delle due condizioni poste dalla legge (avviso ex art. 64 comma 3 lett. c) c.p.p. e scelta consapevole di non avvalersi del diritto al silenzio) può volontariamente scegliere di assumere l’ufficio di testimone (assistito)».
In merito al sindacato giurisdizionale sulla qualità sostanziale del dichiarante – si legge nella sentenza – «la Procura ha sempre sostenuto che a carico delle odierne imputate, durante i processi in cui sono state chiamate a rendere dichiarazioni, fossero al più formulabili meri sospetti, non concretizzanti indizi di reato idonei a determinare l’iscrizione nel registro di reato».
Di diverso avviso il giudizio del Tribunale, secondo il quale «l’Accusa ha finito per concludere che, affinché emergessero gli indizi di reato, era necessario che i Tribunali dei due processi avessero un quadro probatorio più completo (cosa che si sarebbe potuta verificare solo al termine dell’istruttoria); ma così si finisce per perdere il contatto con i fondamentali punti di ancoraggio del sindacato giurisdizionale sulla qualità del dichiarante: l’art. 63 c.p.p., sul piano normativo, e gli art. 3 e 24 Cost. sul piano costituzionale. L’art. 63 c.p.p. richiede che siano emersi a carico del dichiarante “indizi di reità” e non elementi di prova».
D’altronde – si precisa – «se si consentisse all’autorità giudiziaria di escutere come testimone il soggetto a cui carico vi sono già indizi di reità – pur se non un compendio probatorio ancora solido, idoneo a trarlo a giudizio – si finirebbe per permettere l’acquisizione, anche mediante l’atto non garantito, di (ulteriori) elementi a carico del soggetto già indagato. Il fallimento del sistema accusatorio che si verificherebbe in un caso del genere non esige ulteriori commenti».
Secondo i giudici, la Procura «ha impropriamente accostato due valutazioni di segno diverso: quella che il Tribunale dei processi Ruby 1 e Ruby 2 avrebbe dovuto compiere sulla veste processuale con cui escutere le odierne imputate e quella cui era chiamato questo collegio: i giudici dei processi Ruby 1 e Ruby 2 dovevano solo domandarsi d’ufficio – o su impulso di parte, in un’ottica di leale collaborazione – quale fosse la corretta veste processuale con cui assumere le dichiaranti. Era una valutazione incidentale, cui è fisiologicamente chiamata ogni autorità giudiziaria quando assume dichiarazioni. Invece, il compito cui è chiamato questo Tribunale riguardava proprio l’accertamento della sussistenza di delitti che presuppongono la legittima acquisizione della qualità di testimone in capo alle dichiaranti».
Ciò premesso, il Tribunale ha affermato come compito del giudice sia ora quello di «valutare lo scrutinio che ha operato – o che avrebbe dovuto operare – l’autorità giudiziaria che ha proceduto ad escutere il dichiarante: pur intervenendo necessariamente ex post, il giudice deve aver riguardo agli indizi che l’autorità che ha escusso il soggetto aveva prima che questi iniziasse a rendere dichiarazioni»; il tutto partendo dal presupposto che, «se esistono indizi a carico di un soggetto, questi deve essere avvertito della facoltà di non rispondere e assistito da un difensore: la violazione di queste garanzie essenziali ha, come precipitato sanzionatorio sul piano processuale, l’inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni e, dunque, la sterilizzazione della relativa efficacia probatoria».
Ebbene, ad avviso del Tribunale le imputate dovevano essere qualificate come “indagate sostanziali”, posto che, come detto, «non sono necessarie prove della sussistenza di un reato a carico delle dichiaranti per qualificarle come indagate e per escuterle nelle corrispondenti forme garantite. La ricerca delle prove del reato segue l’iscrizione della notizia di reato. Per quest’ultima – e per la qualificazione come sostanziale indagato, ai fini della applicazione del relativo regime dichiarativo – sono sufficienti indizi di reato».
In un’ottica di lealtà processuale – prosegue il Collegio – «tutti i soggetti di quei processi dovevano porsi la questione della qualità con cui sentire le dichiaranti. Le parti conoscevano l’esito delle perquisizioni e delle intercettazioni già prima del dibattimento ed erano, quindi, certamente nelle condizioni per porre la questione all’attenzione del Tribunale». In ogni caso, «rimane il fatto che gli elementi per qualificare correttamente le odierne imputate erano negli atti a disposizione dell’autorità giudiziaria già prima che le medesime fossero chiamate a sedere sul banco dei “testimoni”».
Dopo aver riportato gli indizi a carico delle dichiaranti così come a disposizione dell’autorità giudiziaria – sottolineando, tra le altre cose, come «pressoché tutte le imputate furono destinatarie di un decreto di perquisizione» oltre che di intercettazioni – il Tribunale ha concluso osservando come «a carico di tutte le imputate vi fossero, ben prima dell’escussione di ciascuna, plurimi indizi del delitto di corruzione in atti giudiziari».
Il collegio ha precisato che «non si tratta di una retrospettiva, che guarda al quadro complessivo offerto dai due processi o addirittura agli elementi nuovi addotti nel presente giudizio, ma di una valutazione tutta fondata sulla valutazione degli stessi elementi resi disponibili alle autorità giudiziarie che hanno esaminato le odierne imputate, prima che le medesime sedessero sul banco dei testimoni. Non è casuale che si parli di “valutazione” invece che di “rivalutazione”».
Conseguenza di quanto detto è l’insussistenza dei delitti di corruzione in atti giudiziari e di falsa testimonianza – e, dunque, l’assoluzione anche dei concorrenti nei medesimi delitti – non essendo stato integrato uno degli elementi costitutivi di tali delitti: «nella specie è mancata la qualità di pubblico ufficiale – testimone in capo alle persone che, in ipotesi d’accusa, sarebbero state remunerate per rendere dichiarazioni compiacenti». Nella presente vicenda, infatti, «ancorché le imputate fossero già state attinte da indizi di reità – e, dunque, andassero citate ed escusse ai sensi dell’art. 210 comma 6 c.p.p. – sono state esaminate nelle forme previste per i testimoni “puri”; ma poiché sostanzialmente indagate di reato connesso, erano incompatibili con la qualità di testimone».
E’ appena il caso di evidenziare – conclude il Tribunale – che «qui non si discute di un mero sofisma, di una rigidità processuale, di una sottigliezza tecnica priva di contenuti. Tutelare il diritto al silenzio significa assicurare l’effettività della garanzia del nemo tenetur se detegere, di un principio che innerva l’essenza del sistema processuale e affonda le radici direttamente nel diritto di difesa, costituzionalmente presidiato e pietra d’angolo dell’ordinamento giuridico».
Da un lato, infatti, «su un piano di principio, la giustizia che promana dalla Costituzione repubblicana si alimenta della razionalità e della corretta applicazione delle regole proprie di uno Stato di diritto. Le pur legittime esigenze punitive non possono mai indurre ad abdicare alla garanzia di un diritto fondamentale quale il diritto di difesa, come tutelato dalla Costituzione e dalle norme primarie. Si tradirebbe l’essenza stessa del sistema. E non vi è chi non veda che evitare che la sia pur tardiva (perché posteriore al momento dell’escussione e quindi all’acquisizione di dichiarazioni poi inutilizzabili) attivazione della garanzia nei confronti dell’individuo è la spia, il riscontro al funzionamento del sistema. Per converso, la sottovalutazione di un’esigenza di garanzia posta nell’interesse del dichiarante darebbe vita a una doppia ingiustizia: non solo si è costretto il singolo ad assumere una veste processuale con cui era incompatibile, ma addirittura si finirebbe per pretendere che egli risponda delle conseguenze (penalmente rilevanti e invero severe) derivanti da un ufficio che non ha mai legittimamente assunto».
Dall’altro lato «perché, come già sopra considerato, l’ordinamento – già a monte – ha già individuato il punto di equilibrio tra la garanzia del singolo dichiarante e l’interesse pubblico a evitare la dispersione dei mezzi di prova. E il bilanciamento è conchiuso nel sistema degli avvisi di cui all’art. 64 c.p.p. e delle conseguenze della disciplina delle incompatibilità a testimoniare e dello statuto dei dichiaranti».
È innegabile – si conclude – che «escutendo come testimoni “pure” quelle che in realtà erano indagate, si è verificato esattamente quello che il sistema di garanzie intendeva evitare. Quello che, anzi, il sistema avrebbe evitato se quelle garanzie fossero state osservate». In conclusione, se questo collegio «non avesse ripristinato l’ordine di garanzie violato – con profusione di ulteriori energie processuali – si sarebbe assistito ad un tradimento dell’essenza dello Stato di diritto».