Violenze in carcere a Biella: l’ordinanza con cui il Tribunale di Torino ha escluso il delitto di tortura riqualificando i fatti in abuso di autorità contro arrestati o detenuti
Tribunale di Torino, Ordinanza, 24 maggio 2023
Presidente Relatore Stefano Vitelli, Giudici Giancarlo Capecchi – Stefania Nebiolo
Segnaliamo ai lettori, in merito alla vicenda relativa alle violenze nel carcere di Biella, l’ordinanza con cui il Tribunale di Torino ha revocato le misure interdittive applicate agli indagati escludendo la sussistenza del reato di tortura (art. 613-bis c.p.) e qualificando i fatti come abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 c.p.) – che non consente l’applicazione di misure cautelari personali, nemmeno interdittive – nonché percosse e lesioni.
Dopo aver riepilogato i fatti, il Tribunale ha definito «delicato e complesso» il tema della corretta qualificazione giuridica dei fatti, sia perché «nella descrizione degli elementi costitutivi del nuovo reato di tortura (vuoi quello “orizzontale” tra privati vuoi quello che si verifica nei rapporti “verticali” fra State agents e privati cittadini: tortura c.d. di Stato) il legislatore ha fatto ricorso a concetti per lo più generici che nel loro insieme offrono un quadro volto più ad una descrizione fenomenologica che non ad una rigorosa delimitazione/fondazione normativa», sia perché «alle difficoltà accennate nell’esatta interpretazione degli elementi costitutivi del reato in parola, segue un rigoroso meccanismo sanzionatorio: con un minimo edittale (nel caso di tortura c.d. di Stato e nell’ipotesi non ulteriormente aggravata) di anni cinque di reclusione e un massimo di dodici anni di reclusione».
Il Tribunale ha ulteriormente premesso che «si risolve in trattamento inumano e degradante ogni condotta del pubblico ufficiale che gratuitamente mortifichi, umili la persona, trattandola sul piano fisico e/o morale alla stregua di una res, offendendo così significativamente e ingiustificatamente la sua dignità».
Ciò premesso – e prendendo le mosse dalla condotta consistente nell’immobilizzazione degli arti inferiori di un detenuto già ammanettato – il Tribunale ha osservato che «se la condotta in parola si inserisce in un contesto oggettivamente e soggettivamente teso ad umiliare la persona offesa, a deriderla per una situazione che obiettivamente la mortifica ad un livello di res (non a caso si dice “legato come un salame”), non vi è alcun dubbio sulla ricorrenza del trattamento inumano e degradante». Se, però, «tale operazione (sia pure impropria ed eccessiva, sicuramente sul piano della durata) trova invece (come nel caso di specie) la sua ragion d’essere nella necessità di contenere un detenuto che risultava in pericolosa, reiterata e allarmante (anche per sé) agitazione psico/motoria, il livello di significanza penale della stessa si arresta ad un livello inferiore a quello massimo qui contestato».
Ad avviso dei giudici, «la circostanza che gli agenti avessero subito chiamato il personale medico/infermieristico dell’istituto penitenziario per avere un consulto/aiuto nel contenimento del detenuto, personale medico che si è palesato (come visto) in disaccordo sul metodo di contenimento adottato dagli agenti, costituisce, infatti, un forte argomento logico/fattuale per affermare come l’indagato e gli altri suoi colleghi abbiano operato sì impropriamente nell’adozione di misure di rigore complessivamente eccessive e illegittime (fra cui, appunto, l’apposizione del nastro agli arti inferiori), ma non in un gratuito contesto torturante».
La dinamica delle condotte abusive disvela, dunque, l’integrazione della fattispecie di cui agli artt. 81 cpv c.p. e 608 c.p. (oltreché evidentemente i reati di percosse, lesioni). Del resto, «come sottolineato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, il reato in parola è configurabile anche quando atti di violenza fisica (quali percosse, lesioni e simili) riconducibili ad altre ipotesi di reato incidano sulla sfera di libertà personale del soggetto passivo, determinandone una limitazione aggiuntiva rispetto a quella consentita”. Peraltro, “nell’imputazione cautelare lo stesso pubblico ministero palesa un’oggettiva incertezza nella qualificazione della condotta di apposizione del nastro adesivo per circa due ore agli arti inferiori del detenuto: da un lato, la contesta come forma di tortura (art. 613 bis c.p.), dall’altro come modalità di realizzazione della condotta di abuso di autorità ai sensi dell’art. 608 c.p.».
Considerazioni analoghe valgono per il secondo episodio di contestata tortura, con riferimento al quale «la ricostruzione ragionevole della dinamica dei fatti porta ad affermare che gli agenti si sono trovati di fronte ad un soggetto problematico, già aggressivo nei confronti di altri detenuti e quella mattina verosimilmente minaccioso anche a danno degli agenti».
Secondo il Tribunale, i metodi rudimentali e “spiccioli” del vice-comandante «si sono anche qui tradotti in mezzi di rigore sicuramente impropri, eccessivi e per certi aspetti inutilmente violenti/punitivi»: al tempo stesso, le percosse una volta ammanettato nonché il contenimento delle gambe con del nastro adesivo o la condotta di privazione dei pantaloni sono da considerarsi, «se collocate doverosamente nel contesto oggettivo e soggettivo complessivo, nell’ambito di metodi impropri piuttosto che un trattamento gratuitamente degradante e umiliante. Siamo, insomma, dinnanzi a sicure (non giustificate) violenze fisiche che configurano i delitti di lesione e di abuso di autorità, ma che non assurgono a quella significanza tale da ritenere integrato il delitto di tortura».
Il Tribunale conclude osservando come alla luce di quanto rimarcato «in merito all’importanza culturale e di efficacia general/ preventiva della novella normativa che ha introdotto il delitto di tortura, fra cui quella c.d. di Stato, sarebbe più che opportuno che fattispecie ad essa contigue e deputate (come questa) a punire abusive, inammissibili condotte violente da parte dei pubblici uffici (come appunto quella di cui all’art. 608 c.p.) ricevessero, sia pure in coerenza con un congruo climax ascendente, un trattamento sanzionatorio più severo dell’attuale e comunque tale da consentire l’irrogazione per i responsabili non solo di sanzioni disciplinari, ma anche dell’applicazione di misure cautelare fra cui, appunto, quelle interdittive».
Non bisogna peraltro dimenticare – si osserva – «ed è una considerazione che ha un valore gnoseologico che va ben oltre questa sia pure importante specifica tematica, che la ricerca dell’effetto giuridico voluto e ritenuto giusto può condizionare e forzare l’individuazione della fattispecie giuridica che ne possa costituire la causa».