False fatture: non è “formale”, e quindi non osta al ravvedimento operoso dell’utilizzatore, la conoscenza della verifica fiscale nei confronti dell’emittente
in Giurisprudenza Penale Web, 2023, 6 – ISSN 2499-846X
Cassazione Penale, Sez. III, 19 giugno 2023 (ud. 13 dicembre 2022), n. 26274
Presidente Galterio, Relatore Magro
1. Il principio di diritto.
Con questa interessante sentenza, la S.C. ha affermato che “l’essere stato chiamato a chiarimenti nell’ambito di verifiche svolte nei confronti di un soggetto eventualmente implicato in un diverso reato non equivale ad avere avuto cognizione di un accertamento compiuto nei propri confronti, tanto più alla luce dell’attributo ‘formale’ della conoscenza richiesta, il quale postula che l’accertamento sia quantomeno riferito al soggetto interessato. In assenza di una espressa specifica previsione limitatrice, deve ritenersi conforme alla voluntas legis la soluzione interpretativa che non limita l’applicazione della norma premiale nei confronti di un soggetto, qual è l’utilizzatore delle fatture per operazioni inesistenti ex art. 2 D.lvo 74/2000, che resta estraneo all’attività di accertamento compiuto sul soggetto emittente le suddette fatture, che neppure è un concorrente”.
2. La vicenda processuale.
Era stato il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino ad impugnare una sentenza di assoluzione pronunciata dal GUP in data 25 maggio 2022, essendo stata riconosciuta la causa di non punibilità di cui all’art. 13 comma 2 d.lgs. 74/2000 in relazione all’avvenuta estinzione del debito tributario riferito ad un’ipotesi di dichiarazione fraudolenta ex art. 2.
Il Procuratore ricorrente si doleva dell’errato riconoscimento della causa di non punibilità, dato che il ravvedimento operoso da parte dell’utilizzatore delle fatture per operazioni asseritamente inesistenti era avvenuto solo dopo che questi era stato chiamato dall’Agenzia delle Entrate a fornire chiarimenti nel corso di una verifica compiuta nei confronti della società che proprio quelle fatture aveva emesso: perciò, secondo il Procuratore, il ravvedimento era avvenuto in difetto di una delle condizioni operative della causa di non punibilità, ossia l’avervi provveduto prima di avere avuto “formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali” (così, appunto, l’art. 13 comma d.lgs. 74/2000).
Ad avviso del ricorrente, infatti, a quest’ultima disposizione andava data una lettura rigorosa e tale da ritenere ostativa la formale conoscenza di attività di accertamento non soltanto se svolte nei confronti del contribuente, ma anche se svolte nei confronti di eventuali co-obbligati solidali o concorrenti nel reato. In questo senso, secondo il Procuratore, avrebbero deposto sia il precedente legislativo della voluntary disclosure, che nella l. 186/2014 aveva trovato disciplina in tali esatti termini, sia il dettato dello stesso art. 13 comma 2, che non contiene la precisazione che l’attività di accertamento debba essere svolta “nei confronti” del contribuente.
3. La convincente risposta della Suprema Corte.
La Corte di Cassazione, su conformi conclusioni rassegnate dal Procuratore Generale, ha rigettato il ricorso, sviluppando alcune considerazioni che val la pena di approfondire, per la loro importanza nell’offrire una chiave di interpretazione del suddetto art. 13 comma 2.
La S.C. muove da un richiamo alla disposizione normativa dell’art. 13 d.lgs. 74/2000 che, come noto, a seguito della riscrittura in occasione della riforma penal-tributaria recata dal d.lgs. 158/2015 ha accolto per la prima volta nel decreto legislativo delle cause di punibilità strutturali ai vari reati tributari, suddivise in due ipotesi: la più blanda causa di non punibilità per i delitti di omesso versamento (comma 1), che opera a fronte della mera estinzione del debito tributario nei termini di legge, e la causa di non punibilità “rafforzata” per i delitti in materia di dichiarazione (comma 2) – inizialmente prevista per le sole dichiarazioni infedeli od omesse, ed estesa dalla riforma del 2019 anche a quelle fraudolente –, che esige altresì, con la formula già richiamata supra, che tale estinzione avvenga a seguito di ravvedimento operoso effettuato prima di avere formale conoscenza di attività di accertamento amministrative o penali. Una condizione di “spontaneità” del ravvedimento, quest’ultima, che, nelle intenzioni del legislatore, compenserebbe il maggior disvalore che connota le fattispecie di reato dichiarative (così la Relazione governativa al d.lgs. 158/2015, p. 11).
Premessa una condivisibile notazione dogmatica circa la natura di questa disposizione premiale, che la sentenza qui in commento ascrive alle cause di non punibilità in senso stretto, che intervengono per ragioni di opportunità ad escludere la sanzione penale per fattispecie – per il resto – tipiche, antigiuridiche e colpevoli (confermando con ciò quanto già in passato aveva affermato Cass. Pen., Sez. III, 13 luglio 2018, n. 48375, nonché la dottrina a commento del d.lgs. 158/2015: v. Perini, La riforma dei reati tributari, in Dir. pen. proc., 2016, n. 1, p. 31), la Corte passa poi ad analizzare la vera questione problematica sottesa alla causa di non punibilità dettata dal comma 2 dell’art. 13, ossia quella della “formale conoscenza” da ritenersi ostativa al ravvedimento operoso.
La Corte osserva anzitutto che, nel suo declinarsi rispetto ai due fronti fiscale-amministrativo e penale, la nozione in esame pone meno problemi rispetto al secondo: difatti, la formale conoscenza del procedimento penale discende esclusivamente da una serie di “atti tipici descritti nel codice di rito”, la cui tassatività consente anche di stabilire con nettezza i casi in cui la possibilità di accedere alla causa di non punibilità debba ritenersi, per tale via, negata.
Viceversa, il richiamo ad una formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o di qualunque attività di accertamento amministrativo offre all’interprete appigli ben meno nitidi e saldi. Il problema discende soprattutto dalla dicitura “dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo”, che è infatti quella a cui si è appellato anche il Procuratore ricorrente. Secondo la prima lettura della disposizione che la stessa Corte aveva dato (Relazione dell’Ufficio del Massimario, 28 ottobre 2015, Rel. n. III/05/2015, p. 44), in tali casi la conoscenza ostativa avrebbe dovuto ritenersi maturata in caso di presentazione degli organi accertatori presso il contribuente con notifica dell’atto di avvio dell’accesso, ispezione o verifica, o comunque in caso di notifica di qualsiasi atto di inizio di un accertamento fiscale. Tuttavia, manca del tutto nella norma una specificazione di tipo soggettivo: accertamento amministrativo nei confronti del solo contribuente, o anche di terzi ad esso eventualmente “collegati” da un concorso nel reato o da una coobbligazione solidale rispetto al debito tributario?
Se il Procuratore ricorrente aveva proposto la seconda tesi, sulla base degli argomenti richiamati al par. 1, la Corte sposa invece – condivisibilmente, ad avviso di chi scrive – la prima tesi, più restrittiva: è solo l’accertamento avviato nei confronti del contribuente a poter impedire il ravvedimento operoso con effetti premiali penali ai sensi dell’art. 13 comma 2.
A tale conclusione la Corte giunge osservando innanzitutto l’impossibilità di trarre l’implicito limite al ravvedimento invocato dal Procuratore ricorrente da un’interpretazione estensiva della disciplina in materia di voluntary disclosure: al contrario, proprio la natura eccezionale di tale norma ne impedisce qualsiasi estensione analogica. Pertanto, secondo la Corte, se nell’art. 13 comma 2 il legislatore non ha ritenuto di esplicitare un effetto ostativo al ravvedimento anche di attività di accertamento svolte nei confronti di terzi, deve essere perché un tale effetto ostativo non sussiste: ubi lex non dixit, noluit.
Ne segue che, ad avviso della Corte, deve affermarsi che la nozione di “formalità” della conoscenza dell’accertamento da parte del contribuente postula necessariamente che si tratti di accertamento nei confronti suoi – non di terzi – ed e a lui formalmente notificato, determinandosi con ciò un più ampio spazio operativo per la causa di non punibilità coniata dall’art. 13 comma 2, anche in coerenza con la ratio legislativa – condivisibilmente richiamata dalla Corte – che era quella di “incentivare comportamenti virtuosi”: ratio che sarebbe frustrata se si attribuisse valenza ostativa all’intervenuta conoscenza da parte del contribuente di procedimenti amministrativi anche nei confronti di terzi.
4. Brevi considerazioni in senso adesivo.
La pronuncia in commento si fa apprezzare per la corretta interpretazione che viene proposta circa la nozione di “formale conoscenza” ostativa alla causa di non punibilità in commento.
Sembra potersi riassumere che tale nozione abbia, secondo la Corte, una duplice valenza, oggettiva e soggettiva, e che entrambe queste caratteristiche debbano essere verificate in via cumulativa affinché possa ritenersi operante la causa ostativa all’accesso del contribuente alla causa di non punibilità.
Nel senso oggettivo, è “formale” solo la conoscenza che riguardi un’attività di accertamento (amministrativa o penale) che sia stata effettivamente notificata al contribuente, quindi portata alla sua conoscenza con un atto capace di dispiegare effetti giuridici.
Nel senso soggettivo, ed è quanto la presente sentenza ha contribuito in particolar modo a chiarire, è “formale” solo la conoscenza di un atto che, oltre ad essere stato notificato al contribuente, riguardi un’attività accertativa (sia essa amministrativa o penale) effettivamente rivolta nei suoi confronti, ossia sulle annualità riferibili al suo identificativo fiscale. Proprio quest’ultimo requisito è stato ritenuto carente nell’invito a chiarimenti notificato dall’Agenzia delle Entrate al contribuente che era stato assolto dal GUP di Torino: tale invito, infatti, pur formalmente notificato, integrava formale conoscenza di un accertamento in corso nei confronti di terzi, dunque non riguardante il contribuente in senso soggettivo.
Il fatto che un accertamento a carico dell’utilizzatore possa essere, secondo esperienza, il naturale sviluppo di un accertamento a carico della società emittente le fatture nulla sposta di per sé circa il fatto che, sino a che ciò non avviene, la “formale conoscenza” ostativa ai sensi dell’art. 13 comma 2 non è integrata. Ergo, la causa di non punibilità deve operare (e, trattandosi secondo una condivisibile interpretazione di una causa di non punibilità a carattere obiettivo – così la Circolare Guardia di Finanza, n. 1/2018, vol. I, p. 196; nello stesso senso ma sul comma 1 dell’art. 13, in giurisprudenza, Cass. Pen., Sez. III, 28 settembre 2016, n. 40314; contra, Cass. Pen., Sez. III, 2 ottobre 2020, n. 34940 –, la stessa deve comunicarsi a tutti gli eventuali concorrenti nel reato dichiarativo, anche se non paganti, purché non ancora raggiunti da quella “formale conoscenza” sopra analizzata, dato che, diversamente, un ravvedimento effettuato dall’ultimo concorrente non ancora attinto da notifiche si tradurrebbe, irragionevolmente, in un “tana libera tutti” retroattivo nei confronti di concorrenti meno solerti e già formalmente sottoposti a verifica, con un effetto contrario alla ratio dell’istituto premiale).
La lettura data dalla sentenza in commento appare del resto in linea con quanto la Cassazione aveva già espresso all’indomani della riforma: nella Relazione dell’Ufficio del Massimario, infatti, si era osservato che il requisito della formale conoscenza era da valutare “con riferimento al singolo indagato/imputato, non rilevando l’eventuale conoscenza formale acquisita da soggetti solidalmente obbligati in via tributaria o concorrenti nel reato” (così la Relazione, cit., p. 44). E, in seguito, si era espressa sulla stessa linea anche la Guardia di Finanza nel proprio Manuale, dichiarando di aderire alla linea della Cassazione (cfr. Circolare Guardia di Finanza, cit., p. 196).
Ciò rafforza l’impressione che non possa attribuirsi valenza ostativa alla conoscenza di accertamenti a carico di terzi, pur se coobbligati o concorrenti in un comune reato, laddove tale conoscenza dipenda dalla notifica di meri atti istruttori o volti ad ottenere chiarimenti: la ratio dell’art. 13 comma 2 d.lgs. 74/2000, ben evidenziata dalla Corte nella sentenza, suggerisce anzi che simili momenti di contatto con un soggetto che abbia utilizzato fatture per operazioni di cui si sta sospettando l’inesistenza a carico dell’emittente possano essere lo stimolo a quel ravvedimento operoso che, seppur sollecitato dal timore di future estensioni della verifica, rimane formalmente spontaneo, e quindi meritevole di esenzione da pena.
La logica è del resto non dissimile da quella che l’Agenzia delle Entrate persegue anche attraverso l’invio delle c.d. warning letter a soggetti che abbiano utilizzato in dichiarazione fatture in regime di esenzione IVA poiché emesse da imprese sedicenti esportatrici abituali (status che, tuttavia, in queste lettere l’Agenzia avvisa il contribuente doversi ritenere illegittimamente applicato): il senso delle lettere non è certo quello di notificare la violazione all’utilizzatore al fine di impedirgli di effettuare il ravvedimento operoso ma, all’opposto, quella di stimolare una sua revisione dei rapporti commerciali con il soggetto emittente le fatture al fine di addivenire ad un eventuale ravvedimento su basi spontanee.
L’approdo così raggiunto potrebbe ritenersi, sotto un certo punto di vista, discutibile: la funzione della pena che ne risulta è, infatti, poco più che quella di un’arma di riscossione forzata del tributo, pronta ad essere rinfoderata non appena il contribuente adempia, cancellando la punibilità anche dei più gravi reati tributari previsti dalla nostra legislazione. La frizione con il principio di sussidiarietà appare in effetti evidente, ma – va detto – è una frizione il cui responsabile non è l’interprete, bensì le recenti opzioni politico-criminali che hanno fatto del recupero del gettito la finalità primaria anche nella costruzione della disciplina penale degli illeciti fiscali. Ignorare tale ratio legislativa e sanzionare penalmente contribuenti pur ravvedutisi, sulla base di interpretazioni eccessivamente restrittive dell’art. 13 comma 2, trasformerebbe la disposizione in una “trappola” per contribuenti e la relegherebbe ben presto alla totale ineffettività.
Come citare il contributo in una bibliografia:
R. Lucev, False fatture: non è “formale”, e quindi non osta al ravvedimento operoso dell’utilizzatore, la conoscenza della verifica fiscale nei confronti dell’emittente, in Giurisprudenza Penale Web, 2023, 6