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17 Luglio 1998: nasce lo Statuto di Roma. Il 25° anniversario della Corte Penale Internazionale e la guerra in Ucraina.

in Giurisprudenza Penale Web, 2023, 7-8 – ISSN 2499-846X

Il 17 luglio 1998 la Conferenza diplomatica che riunisce i rappresentanti di 160 Stati approvava lo Statuto di Roma, che poneva le basi per istituire la Corte penale internazionale.
Nel corso della guerra in Ucraina, di fronte alle distanze tra gli attori per l’avvio dei negoziati e alla brutale protervia dell’aggressore, è prevalsa la prospettiva di richiamare i principi della giustizia penale internazionale.
L’affermazione dei principi dello Statuto di Roma, come l’incriminazione per le guerre di “aggressione”, può porre una base solida per un processo di pace equo e giusto, che garantisca i popoli da qualsiasi “resa incondizionata” sotto la minaccia di un aggressore.

I 25 anni dello Statuto di Roma.
Sono trascorsi 25 anni da quel 17 luglio 1998, quando a Roma, nella sede della Fao di viale Aventino, la Conferenza diplomatica che riuniva i rappresentanti di 160 Stati scoppiò in un fragoroso applauso: alle 22.50, il Presidente Conso aveva annunciato i 120 voti a favore della maggioranza assoluta, raggiunti sui 148 Stati votanti. Lo Statuto della Corte penale internazionale (Cpi) era finalmente diventato una realtà. Da quel momento tra i giuristi di tutto il mondo si ricorderà The Rome Statute, lo Statuto di Roma. Quella sera una fiaccolata era partita dal Campidoglio e attraversando i Fori imperiali e le Terme di Caracalla era giunta alla sede della Conferenza diplomatica. L’attesa aveva coinvolto anche in molte altre parti del mondo una vasta rappresentanza di organizzazioni e movimenti della società civile, allora attiva promotrice dei temi della giustizia internazionale.
In Italia probabilmente a molti sfugge oggi il significato di quel momento. Si trattava di un percorso iniziato da lontano con i principi affermati nelle origini del Diritto internazionale umanitario, con le prime Convenzioni dell’Aja e di Ginevra, e rimasto incompiuto per lungo tempo, almeno dal Trattato di Versailles del 2019 che avrebbe dovuto incriminare l’Imperatore tedesco e gli altri responsabili della guerra di aggressione costata oltre 10 milioni di morti. Solo con i Tribunali di Norimberga e Tokio, e in seguito con i Tribunali per la ex Jugoslavia e del Ruanda si palesarono le condanne dei criminali di guerra, ma con tutti i limiti dei tribunali ad hoc, costituiti sull’emergenza e con un quadro giuridico ancora non ben definito.

Crimini di guerra e contro l’umanità.
Entrato in vigore il 1° luglio 2002 al raggiungimento delle ratifiche necessarie (l’Italia aveva provveduto alla autorizzazione alla ratifica e all’ordine di esecuzione con la Legge 12 luglio 1999 n. 232, G.U. del 19 luglio 1999 n. 167, S.O. ), lo Statuto della Corte si presenta oggi come la base giuridica più compiuta che definisce i crimini di genocidio (art.6), i crimini contro l’umanità (art.7), i crimini guerra (art. 8), e, dopo la Conferenza di Kampala del 2010, anche l’ aggressione (art.8-bis), ovvero l’attacco illegittimo contro la sovranità degli Stati, in violazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite. La Corte nella sua configurazione di tribunale a carattere permanente e dall’efficacia universale interviene sulla base del principio di complementarietà, ovvero qualora gli Stati “non vogliano o non possano” giudicare i colpevoli, per unwillingness, il «difetto di volontà» (per ritardi ingiustificati, non indipendenza e non imparzialità, ex art.17 comma 2 lett.a), o per inability, l’«incapacità dello Stato» (per “collasso istituzionale”, specie riferito agli organi giudiziari, ex art.17 comma 2 lett. b). Fondamentali sono poi alcuni principi, come l’obbligo degli Stati di dare esecuzione ai provvedimenti della Corte, inclusi i mandati di arresto e le sentenze di condanna, ovunque nei loro territori, e in quelli ove operano le loro forze armate, anche quando i crimini internazionali commessi dagli imputati non siano stati diretti contro di essi e i loro cittadini. Inoltre, per i crimini di competenza della Corte non operano né la prescrizione, né le immunità funzionali o personali.
Sono previsti alcuni caveat perché il Prosecutor possa procedere all’azione penale, tra cui quello che consente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di disporre il deferral, il differimento del procedimento. Per il crimine di aggressione le condizioni di procedibilità sono ancora più stringenti: non può procedersi nei confronti degli Stati che non abbiano aderito allo Statuto e agli emendamenti di Kampala, o che abbiano notificato una dichiarazione di non-accettazione (opt-out). Inoltre il Prosecutor deve accertare se il Consiglio di Sicurezza ha determinato l’esistenza di un atto di aggressione e se il Consiglio non adotta tale determinazione entro sei mesi il prosecutor può procedere solo se autorizzato da tutti i giudici della Divisione predibattimentale.

Il percorso della Corte penale internazionale.
Un sistema così radicalmente innovativo non poteva presentarsi senza difficoltà di attuazione. Nonostante la maggioranza raggiunta dalle 123 ratifiche delle Nazioni che hanno aderito al sistema della Corte, tra queste non figurano la Russia – che pure aveva sostenuto e approvato lo Statuto – la Cina, ma anche Paesi democratici come Israele e soprattutto Stati Uniti. Da questi sono venute anzi forti opposizioni quando si è tentato di avviare indagini nei teatri afghani e palestinesi: nei confronti della ex procuratrice Bensouda i leader americani e israeliani hanno lanciato accuse di essere una enemy of the State e di antisemitismo, e il presidente Trump ha emesso nei suoi confronti un executive order di congelamento dei beni, poi revocato da Biden. Altre voci critiche venute dai Paesi africani hanno lamentato l’orientamento dei giudici a procedere solo o principalmente in quel contesto regionale, mentre si è parlato di inerzie della Corte su alcune gravissime crisi umanitarie come quelle del Darfur e della Siria. Le critiche hanno riguardato anche il rapporto risorse/risultati: un budget particolarmente alto che ricade sugli Stati parte (circa 170 milioni di euro nell’ultimo anno) e uno staff di 900 persone sono stati impegnati in questi venti anni complessivamente per 31 casi, che hanno portato a 40 mandati di arresto, di cui eseguiti 21, 10 condanne e 4 assoluzioni. Non è questo tuttavia un dato di univoca lettura, vista le complessità nell’ accertare le responsabilità e nel rintracciare i colpevoli per tale genere di crimini, per i quali peraltro non possono avviarsi processi in contumacia. Le critiche hanno riguardato anche il rapporto risorse/risultati: budget che ricadono sugli Stati parte (circa 170 milioni di euro nell’ultimo anno) e uno staff di 900 persone sono stati impegnati in questi venti anni complessivamente per 31 casi, che hanno portato a 40 mandati di arresto, di cui 21 eseguiti, 10 condanne e 4 assoluzioni. Non è questo tuttavia un dato di univoca lettura, vista le complessità nell’ accertare le responsabilità e nel rintracciare i colpevoli per tale genere di crimini, per i quali peraltro non possono avviarsi processi in contumacia.
Fondamentalmente, è sempre prevalso in vari contesti lo scetticismo per la scelta di ricorrere alla giustizia internazionale che contrasterebbe con la ricerca di percorsi per la pace, specie in una guerra in corso. Ma il conflitto in Ucraina ha mutato la prospettiva. Le distanze tra gli attori sull’avvio di negoziati e la brutalità della condotta della guerra hanno indotto gli Stati a difendere un popolo anche con gli altri strumenti che portano all’isolamento internazionale dell’aggressore: dalle Risoluzioni di condanna dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, fino alle sanzioni economiche e ai processi della giustizia penale internazionale. Peraltro l’affermazione dei principi dello Statuto di Roma, come l’incriminazione per le guerre di “aggressione”, può porre una base solida da cui partire per definire un processo di pace equo, giusto e giuridicamente valido, che garantisca un popolo da qualsiasi “resa incondizionata” sotto la minaccia di un aggressore.

La guerra in Ucraina.
La guerra in Ucraina ha mutato lo scenario. Si è discusso sulla scelta “politica” di ricorrere alla giustizia internazionale che contrasterebbe con il fine di avviare un percorso per la pace. Tuttavia, di fronte alle distanze tra gli attori per l’avvio dei negoziati, e alla protervia e alle brutalità della condotta della guerra, è prevalsa la prospettiva di sostenere l’Ucraina con l’aiuto armato e con tutti gli altri strumenti che aggravano l’isolamento internazionale della Russia: dalle Risoluzioni di condanna dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, alle censure del Consiglio d’Europa, fino alle sanzioni economiche e ai processi della giustizia penale internazionale. Peraltro l’affermazione dei principi dello Statuto di Roma, come l’incriminazione per le guerre di “aggressione”, può porre una base solida da cui partire per definire un processo di pace equo, giusto e giuridicamente valido, che garantisca da qualsiasi “resa incondizionata” sotto la minaccia di un aggressore.
La svolta si è avuta con la scelta compiuta da una significativa rappresentanza di Stati che ha voluto dare forza e legittimazione al procuratore della Corte: ai sensi dell’articolo 14 dello Statuto, 40 Stati hanno promosso il referall l’atto d’impulso con la richiesta di indagare nel conflitto in Ucraina su ogni atto che possa integrare non solo “crimini di guerra”, ma anche “crimini contro l’umanità” e il “genocidio”. Tra i promotori sono apparsi in testa la Lituania, l’Italia e tutti gli altri paesi dell’Unione europea, ma anche Regno Unito, Australia, Canada, Colombia, Costa Rica, Georgia, Islanda, Lichtenstein, Nuova Zelanda, Norvegia, Svizzera, e Irlanda. Da allora si è giunti a definire un modello di cooperazione giudiziaria ad hoc inquadrato nel sistema della Corte, dove in osservanza al principio di complementarietà si è tenuto conto delle prove acquisite dalla procura ucraina ma, anche per garantire neutralità e indipendenza della giurisdizione, sono state costituite squadre investigative comuni e intese con le agenzie specializzate delle Nazioni Unite, Eurojust, il Consiglio d’Europa, la Rete europea contro il genocidio e varie autorità giudiziarie nazionali.

Il mandato d’arresto per Putin.
In definitiva una complessa «comunità di diritto» si è costituita attorno al sistema della Corte, che perciò ha potuto esprimersi per la prima volta durante una guerra in corso. Grazie all’azione del referall dei 40 Stati, il prosecutor della Corte Karim Khan ha potuto saltare la procedura della Pre Trial Chamber e promuovere l’azione giudiziaria. Il 17 marzo 2023 su richiesta del Prosecutor la Camera preliminare ha emesso nei confronti del Presidente Putin e della Commissaria per i diritti dei minori Maria Lvova-Belova i primi mandati d’arresto con l’accusa di deportazione e trasferimento illegale di minori ucraini dalle zone occupate dell’Ucraina alla Federazione russa, in violazione dell’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), punto vii), e dell’articolo 8, paragrafo 2, lettera b), punto viii), dello Statuto di Roma. La deportazione dei bambini ucraini in Russia, mistificata sotto la forma di misura di protezione dalla guerra, ha suscitato una grave esecrazione della comunità internazionale, e i giudici della Corte penale dell’Aja hanno ritenuto ampiamente documentati i reali propositi criminali russi, grazie ai riscontri acquisiti dalle squadre investigative congiunte. Le parole del procuratore Karim Khan sono state eloquenti: «Non esiteremo a presentare ulteriori richieste di mandato d’arresto quando le prove ci consentiranno di farlo». Il mandato d’arresto emesso dalla Pre Trial Chamber dell’ Aia è dunque solo un’anticipazione di un’iniziativa giudiziaria su altri fronti.
Le polemiche sulla difficoltà di dare esecuzione al mandato d’arresto senza un regime change ovviamente sono state scontate, ma intanto un primo effetto c’è stato: il Sudafrica sta cercando la soluzione – che non potrà reggere giuridicamente – per consentire a Putin di presentarsi immune dal mandato d’arresto al vertice in programma a Pretoria dei Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). È in ogni caso un dato di fatto che anche nella percezione dei controllati media russi il provvedimento della Corte dell’Aja segna un aggravamento dell’isolamento internazionale. «Se il nostro paese non riuscirà a vincere, allora ognuno di noi russi rischierà di finire all’Aja. Tutti saremo colpevoli», ha commentato l’opinionista Olga Skabeyeva. É probabile che le celle di Scheveningen dove sono stati reclusi i criminali di guerra della ex Jugoslavia Milošević e Karadžić, comincino a far parte degli incubi di Putin e dei suoi generali, che intanto dovranno essere accorti se si muovono all’estero. Una condizione destinata nel tempo ad incidere non poco, posto che con la rivolta di Prigozhin la nomenklatura non è apparsa più monolitica attorno al suo leader.

Il “Centro internazionale” per l’aggressione all’Ucraina.
La guerra ha posto in evidenza anche un’altra criticità: la Corte penale internazionale non può procedere per l’aggressione all’Ucraina, il leadership-crime che si è delineato nella irresponsabile scelta dei vertici della Federazione Russa di violare la sovranità dell’Ucraina. La Russia non ha ratificato lo Statuto di Roma, come peraltro gli Stati Uniti e la stessa Ucraina, che pure ha aderito al sistema della Corte per gli altri crimini internazionali. Né ovviamente ci si può aspettare una determinazione nel senso dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove siede la Russia con diritto di veto. Zelensky ha promosso l’idea di costituire un Tribunale speciale per l’Ucraina, che è stata rilanciata dalla Presidente della Commissione europea von der Leyen e poi formalizzata in occasione del 24º vertice UE-Ucraina del 2 febbraio 2023. Il documento della Commissione chiarisce che “sostiene pienamente la Cpi nelle sue indagini sui crimini di guerra e sui crimini contro l’umanità”, dichiarandosi pronta a “perseguire il crimine di aggressione della Russia”, ipotizzando due modelli: un tribunale internazionale indipendente basato su un trattato multilaterale, o un tribunale ibrido, cioè un organismo giudiziario nazionale integrato con giudici internazionali. La linea che i giuristi europei potrebbero mettere a fuoco è quella di sostenere una risoluzione dell’Assemblea degli Stati parte o un accordo tra Unione Europea, vari Stati garanti, Ucraina e la stessa Corte penale internazionale, che perciò non sarebbe esclusa o superata dal processo.
Intanto a breve il Parlamento di Kiev potrebbe ratificare integralmente lo Statuto della Corte penale internazionale, mentre il 3 luglio è sorto il Centro internazionale per il perseguimento del crimine di aggressione contro l’Ucraina (ICPA). Come indicato da The Guardian, si tratta di una “piattaforma innovativa” voluta dal vertice della Commissione di febbraio, ora costituita all’Aja, nella sede di Eurojust, l’Agenzia dell’Unione Europea per la cooperazione penale, di cui ha diretto sostegno: indiscussa è dunque la sua piena rilevanza giuridica in un processo in divenire dei modelli di giurisdizione internazionale. Di fatto è la struttura che si poggia sulla rete sviluppatasi dalle fasi iniziale della guerra, costituita grazie ai primi 14 paesi europei che hanno voluto far collaborare i loro esperti e le procure nazionali con quella ucraina, e soprattutto con il prosecutor della Corte penale internazionale. Al cuore del sistema c’è il Core International Crimes Evidence Database (CICED), gestito da Eurojust, dove è confluita la corposa documentazione probatoria sugli altri crimini internazionali (genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra), e che ora sarà rilevante anche per il crimine di aggressione. La costituzione del Centro è il segnale che saranno compiuti gli altri passi tracciati dall’UE e che in ogni caso dall’Aja l’expertise di Eurojust e delle procure nazionali (per ora di Lituania, Lettonia, Estonia, Polonia e Romania) sta assicurando la fase decisiva della raccolta delle prove. Anche gli Stati Uniti hanno sottoscritto un memorandum d’intesa con l’ICPA designando un procuratore speciale per l’aggressione all’Ucraina.

Ritrovare lo “spirito” dello Statuto di Roma.
All’Italia spetterebbe ancora promuovere qualcosa di concreto: il varo del Codice dei crimini internazionali da tempo in gestazione tra governo e parlamento, e la riapertura alla firma dello Statuto per estenderne l’adesione. La catastrofe umanitaria compiutasi in Ucraina potrebbe convincere anche gli Stati Uniti a ritornare sui loro passi per aderire pienamente al sistema della Corte, e ciò comporterebbe davvero affermare universalmente i principi della giustizia penale internazionale e rendere compiuto e indelebile lo sdegno dell’umanità contro le atrocità della guerra. L’Italia potrebbe farsi carico anche di una nuova iniziativa da intraprendere in seno alla Assemblea Generale delle Nazioni Unite o a quella degli Stati parte della Corte con una radicale proposta di revisione dello Statuto: con una Risoluzione adottata a maggioranza dell’ Assemblea dell’Onu o a seguito di un referall presentato da almeno 40 Stati dovrebbe consentirsi al Prosecutor di procedere direttamente pure per l’aggressione, ed anche nei confronti degli Stati che non hanno ratificato lo Statuto. Significherebbe dare un senso compiuto agli anniversari e far rivivere lo “spirito” dello Statuto di Roma.

Come citare il contributo in una bibliografia:
M. Delli Santi, 17 Luglio 1998: nasce lo Statuto di Roma. Il 25° anniversario della Corte Penale Internazionale e la guerra in Ucraina, in Giurisprudenza Penale Web, 2023, 7