La Babele per direttissima, ovvero come processare l’alloglotta senza farglielo sapere
in Giurisprudenza Penale Web, 2023, 9 – ISSN 2499-846X
Cassazione Penale, Sez. VI, 19 luglio 2023 (ud. 15 giugno 2023), n. 31431
Presidente Villoni, Relatore Calvanese
In un Paese civile ci si aspetterebbe che l’imputato alloglotta fosse posto in condizione di comprendere cosa gli sta accadendo quando finisce sotto processo, così da potersi adeguatamente difendere o, per lo meno, dare il proprio consapevole contributo alla ricostruzione dei fatti ed all’individuazione delle responsabilità.
Del resto, senza dover risalire all’insegnamento della Consulta dei primi anni ’90, che aveva già da tempo tratteggiato il ricorso all’interprete come oggetto di un diritto individuale dello straniero, basta uno sguardo ai vigenti principi eurounitari per rendersi conto del carattere imprescindibile della comprensione della lingua del processo: impone infatti l’art.1 della Direttiva 2010/64/UE del 20 ottobre 2010 «che gli indagati o gli imputati che non parlano o non comprendono la lingua del procedimento penale in questione siano assistiti senza indugio da un interprete nei procedimenti penali dinanzi alle autorità inquirenti e giudiziarie, inclusi gli interrogatori di polizia, e in tutte le udienze, comprese le necessarie udienze preliminari… L’interpretazione fornita ai sensi del presente articolo dev’essere di qualità sufficiente a tutelare l’equità del procedimento, in particolare garantendo che gli imputati o gli indagati in procedimenti penali siano a conoscenza delle accuse a loro carico e siano in grado di esercitare i loro diritti della difesa».
Invece, secondo una pronuncia di poche settimane or sono della nostra Corte di Cassazione in tema di giudizio direttissimo, sarebbe legittima la convalida dell’arresto dello straniero alloglotta senza che si sia previamente proceduto al suo interrogatorio per l’impossibilità di reperire tempestivamente un interprete, ricorrendo in tale eventualità un caso di forza maggiore, con la conseguenza che il giudice deve provvedere sulla richiesta di convalida e pronunciarsi sull’ammissibilità del rito direttissimo.
La decisione in parola desta perplessità per lo meno sotto due aspetti.
In primo luogo, essa omette qualsiasi confronto con i sopracitati principi vincolanti eurounitari e, soprattutto con la loro esplicita e puntuale attuazione operata nel nostro ordinamento con D.L.vo 4-3-2014 n.32, che ha scolpito nell’art.143 c.p.p. la previsione per cui «l’imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente, indipendentemente dall’esito del procedimento, da un interprete al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti e lo svolgimento delle udienze cui partecipa. Ha altresì diritto all’assistenza gratuita di un interprete per le comunicazioni con il difensore prima di rendere un interrogatorio, ovvero al fine di presentare una richiesta o una memoria nel corso del procedimento».
In secondo luogo, e per converso, essa fa riferimento ad un istituto, la «forza maggiore», di cui non v’è traccia nella vigente disciplina del rito direttissimo. Per verità, non ve n’è traccia in tutto il vigente codice di rito, se non per regolare – in determinati casi – la possibilità delle parti di essere rimesse in termini per l’esercizio delle proprie facoltà, e non certo per legittimare uno “snellimento” dell’attività dell’Autorità procedente.
Per contenuti e conclusioni, trattasi di pronuncia non isolata ed anzi in linea con un indirizzo alquanto consolidato a piazza Cavour, cui si contrappone però un differente orientamento giurisprudenziale e dottrinale: nel contributo si analizzeranno i termini del confronto e le possibili soluzioni.
Come citare il contributo in una bibliografia:
F. Malagnino, La Babele per direttissima, ovvero come processare l’alloglotta senza farglielo sapere, in Giurisprudenza Penale Web, 2023, 9