Peculato: compensi del curatore e autorizzazione del giudice fallimentare
Cassazione Penale, Sez. VI, 9 ottobre 2023 (ud. 15 settembre 2023), n. 40498
Presidente Fidelbo, Relatore Rosati
In tema di peculato, segnaliamo la sentenza con cui la sesta sezione penale ha confermato la sentenza di condanna emessa dalla Corte di Appello di Brescia nei confronti di un curatore per aver chiesto – ed ottenuto – a titolo di compenso professionale dall’istituto bancario presso il quale era acceso il conto corrente della società fallita due assegni circolari, tratti su tale conto e da lei girati in favore di una società di cui era amministratrice e socia al 50%.
Secondo i giudici di legittimità, “l’allegazione difensiva per cui l’imputata avrebbe chiesto alla banca l’emissione degli assegni nella convinzione di aver ottenuto la relativa autorizzazione dal giudice fallimentare è un puro asserto, poiché priva di qualsiasi conforto probatorio“.
Per converso, ad avviso del Collegio, la motivazione si fonda su una “pluralità di dati di fatto indiscussi, che, valutati in coordinazione tra loro, rendono logicamente del tutto lineare la conclusione cui sono giunti entrambi i giudici di merito, vale a dire: a) il nitido dato normativo di riferimento, ovvero l’art. 39, r.d. n. 267 del 1942, secondo cui il compenso e le spese dovuti al curatore sono liquidati secondo una ben definita procedura (istanza del curatore, relazione del giudice delegato e decreto del Tribunale), di regola dopo l’approvazione del rendiconto e, se del caso, dopo l’esecuzione del concordato, essendo prevista la possibilità di acconti sul compenso solamente in caso di giustificati motivi; b) la qualità professionale dell’imputata e la sua specifica esperienza, avendo spesso collaborato prima d’allora con il suo socio affidatario di numerose curatele fallimentari; c) le precedenti condotte delittuose analoghe realizzate da costui in altre procedure fallimentari; d) soprattutto, la causale generica e non pertinente con le quali la aveva giustificato nelle relative fatture le somme autoliquidatesi, inspiegabile qualora ella avesse agito in buona fede; e) l’irrilevanza, infine, della condotta negligente della banca, in quanto – semmai la ricostruzione difensiva fosse vera – essa era intervenuta in un momento in cui la convinzione dell’esistenza dell’autorizzazione giudiziaria era stata già maturata dall’imputata“.