Aiuto al suicidio: la richiesta di archiviazione della Procura di Firenze nei confronti di Marco Cappato, Felicetta Maltese e Chiara Lalli
Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, richiesta di archiviazione, 17 maggio 2023
Dott. Carmine Pirozzoli
Segnaliamo, in considerazione dell’interesse mediatico delle vicende, la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Firenze nel procedimento che vede coinvolti Marco Cappato, Felicetta Maltese e Chiara Lalli per aver contribuito ad accompagnare un 44enne affetto da sclerosi multipla in una clinica svizzera a praticare il suicidio assistito.
La Procura ha anzitutto evidenziato come la condotta degli indagati sia ascrivibile alla sola fattispecie di “aiuto al suicidio” – e non anche a quella di “determinazione o istigazione al suicidio” – «non risultando che gli stessi abbiano svolto un qualsivoglia ruolo nella formazione o nel rafforzamento della volontà suicidaria» ed essendo, al contrario, «emerso il tentativo, fino all’ultimo, di far desistere la persona dalla sua decisione, prospettandogli la possibilità di fare ritorno in Italia».
Ciò premesso, ad avviso della Procura l’interpretazione preferibile della norma ne determina l’inapplicabilità al caso di specie, essendo preferibile l’interpretazione – restrittiva – che «limita la punibilità alle sole condotte direttamente e strumentalmente connesse all’attuazione materiale del suicidio, ossia quelle che si collocano in una posizione di contiguità (soprattutto temporale) con l’atto soppressivo finale».
Ebbene il contributo di Cappato «si esaurisce nell’aver fornito informazioni sul panorama normativo sul fine vita, nell’averne facilitato i contatti con la clinica e nell’aver sostenuto i costi del noleggio del mezzo utilizzato per il viaggio in Svizzera (tutte condotte “atipiche” rispetto all’art. 580 c.p. perché si collocano in un momento distante dall’evento morte e perché, sul piano funzionale, sono connotate da una estrema fungibilità)». Il contributo di Maltese e Lalli è consistito nell’aver guidato il mezzo sino in Svizzera ed è stato fornito in una fase certamente più vicina al momento della morte; ciononostante, anch’esso risulta essersi arrestato ad uno stadio meramente preparatorio, «non risultando neanche che le due indagate abbiano poi partecipato in alcun modo alle operazioni medico-assistenziale svolte per valutare la condizione del paziente».
Nel caso in cui il GIP non condividesse tale interpretazione dell’art. 580 c.p. – si legge nella richiesta di archiviazione – ad avviso della Procura si dovrebbe comunque applicare agli indagati la causa di non punibilità introdotta dalla sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale.
Proprio con riferimento ai requisiti richiesti a tal proposito – patologia irreversibile, sofferenze intollerabili, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di assumere decisioni libere e consapevoli – la Procura si è soffermato su quello relativo alla dipendenza da trattamenti di sostegno vitale (di cui alla lettera c) non sussistente nel caso di specie.
Sul punto, la Procura ha richiamato l’indirizzo giurisprudenziale successivo alla pronuncia della Corte Costituzionale secondo cui «si può dire integrata la nozione di “trattamento di sostegno vitale” non solo a fronte della dipendenza del paziente da una macchina, ma in presenza di ogni intervento realizzato con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o con l’ausilio di macchinari medici, purché si tratti, in sostanza, di trattamenti interrompendo i quali si verificherebbe la morte del malato, anche in maniera non rapida».
Sebbene tale interpretazione appaia condivisibile, la stessa non è stata ritenuta in alcun modo praticabile nel caso di specie: da un lato, infatti, è pacificamente «assente un qualsiasi trattamento (meccanico, farmacologico o umano) qualificabile come “di sostegno vitale”».; dall’altro, «non pare ipotizzabile un’interpretazione che riconduca a tale nozione la generica attività di assistenza prestata da terzi a una persona con progressiva perdita di autosufficienza nel compimento di alcune attività basilari della vita quotidiana».
La conclusione – prosegue la richiesta di archiviazione – è che, «a causa della impossibilità di ravvisare il requisito di cui alla lett. c), al giudice sarebbe inibito di applicare agli indagati la causa di non punibilità di cui all’art. 580 c.p.»; limitazione, quest’ultima, che ad avviso della Procura è tale da porsi in contrasto con la Costituzione per più di un motivo.
Anzitutto, ad avviso della Procura di Firenze, il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale «discrimina irragionevolmente tra situazioni per il resto identiche, poiché impedisce l’accesso al suicidio assistito di persone che pure presentano una malattia irreversibile e una sofferenza intollerabile: il fatto che per costoro non ricorra il requisito di cui alla lett. c) discende da circostanze del tutto accidentali, legate alla variabilità delle manifestazioni patologiche nei casi concreti, senza che tale differenza rifletta un bisogno di protezione più accentuato. Ad oggi, infatti, a parità delle altre condizioni, sono escluse dalla possibilità di accedere al suicidio assistito intere categorie di pazienti – tra cui, per rilevanza empirica, i malati oncologici e quelli affetti, come nel caso in esame, da patologie neurodegenerative – che invece, a causa della propria condizione, possono vantare un interesse a sottrarsi alle sofferenze e a una lenta agonia di consistenza pari a quello di chi si trova a dipendere da un trattamento di sostegno vitale; consistenza pari se non maggiore, considerato che quanti si trovano a dipendere effettivamente da un trattamento di sostegno vitale potrebbero comunque procurarsi la morte pretendendo la disattivazione del trattamento stesso».
In secondo luogo, «pare irragionevole richiedere una situazione di dipendenza da trattamenti di sostegno vitale laddove il paziente è pacificamente titolare – in base a un principio consolidato nella riflessione teorica e giurisprudenziale, e oggi codificato dal legislatore (cfr. art. 1. comma 5, I. 219/17) – di un diritto a rifiutare l’inizio e la prosecuzione dei trattamenti sanitari, anche salvavita; sicché l’accesso al suicidio assistito potrebbe essere precluso per il solo fatto che il paziente, come pure sarebbe suo diritto fare, abbia, fin dall’esordio o comunque dalla diagnosi della malattia, rifiutato qualsiasi trattamento. Sarebbe peraltro paradossale che, per tributare rispetto formale a un requisito svuotato di significato pratico, il paziente da sempre contrario a ogni intervento sul proprio corpo fosse costretto a sottoporsi a un trattamento, per poi subito dopo chiederne la disattivazione ai fini della procedura di aiuto al suicidio».
La Procura prosegue osservando come «l’impossibilità di accesso al suicidio assistito per le categorie di pazienti irreversibili e sofferenti, ma privi del requisito di cui alla lett. c), si traduce in una ingiustificata lesione dei loro diritti fondamentali, per come enucleati dalla Corte costituzionale nel giudizio di legittimità sull’art. 580 c.p., imponendo un’unica modalità di congedo dalla vita, anche quando questa si rivela lenta, dolorosa e contraria alla loro concezione di dignità; circostanza tanto più vera, come detto, per chi non può procurarsi la morte semplicemente interrompendo un trattamento».
In conclusione, «i diritti che secondo la stessa Corte costituzionale erano illegittimamente compressi dal divieto assoluto di aiuto al suicidio previsto nel codice del 1930 assumono concretezza e richiedono tutela in presenza di uno stato di malattia e di sofferenza della persona, mentre resta del tutto irrilevante che a tale stato si associ anche la presenza di trattamenti o supporti di sostegno vitale, la cui previsione finisce anzi per perpetuare una lesione dei medesimi diritti fondamentali».
Pertanto – conclude la richiesta di archiviazione – «qualora il giudice ritenesse integrata nel caso di specie la tipicità della fattispecie di aiuto al suicidio, al momento di valutare l’applicazione agli indagati della causa di non punibilità dell’art. 580 c.p. dovrebbe sollevare questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione – come modificata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019 – nella parte in cui prevede tra i requisiti di liceità della condotta di aiuto al suicidio la circostanza che l’aiuto sia prestato a favore di “persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”».