Attività integrativa di indagine (art. 430 c.p.p.) e interrogatori resi in procedimenti formalmente diversi, ma relativi alla medesima vicenda: l’ordinanza di inutilizzabilità resa nel procedimento per la morte di Samman Abbas
Corte di Assise di Reggio Emilia, Ordinanza, 10 novembre 2023
Presidente dott.ssa Cristina Beretti
Segnaliamo ai lettori, sempre con riferimento al procedimento per la morte di Samman Abbas (su cui abbiamo già segnalato altro provvedimento di inutilizzabilità), l’ordinanza con cui la Corte di Assise di Reggio Emilia ha dichiarato inutilizzabili le dichiarazioni rese dallo zio della vittima in sede di interrogatori successivi all’emissione del decreto che dispone il giudizio.
Pur a fronte dell’intervenuta emissione dell’atto di impulso processuale che determina il passaggio alla fase dibattimentale del giudizio di primo grado – si legge nell’ordinanza – il PM procedeva, in due occasioni, all’interrogatorio dell’imputato, alla presenza dell’allora difensore di fiducia, nell’ambito di procedimenti penali recante un diverso numero di r.g.n.r. ma riferibili, sostanzialmente, alla medesima vicenda ora all’attenzione della Corte di Assise.
Procedimenti, cioè, con riferimento ai quali – osserva la Corte – «la diversità è, all’evidenza, soltanto apparente, come chiaramente disvela l’incipit delle domande rivolte dal PM in occasione di un interrogatorio, in cui si fa espresso richiamo alla vicenda per cui l’imputato era ed è tuttora sottoposto a giudizio».
Stesso discorso con riferimento all’ulteriore interrogatorio dell’imputato – reso a dibattimento già aperto – relativo a procedimento di cui «deve evidenziarsi la natura solo formalmente distinta in quanto, anche in questo caso, il tenore delle domande rivolte all’imputato e, più in generale, il contenuto dell’interrogatorio nel suo complesso rivelano – ancor di più che nel caso precedente – la sostanziale e totale sovrapponibilità dei fatti per cui si procede in questa sede rispetto a quelli su cui si è incentrato l’interrogatorio in questione».
In sostanza, «ciò che si ritiene determinante nell’escludere l’alterità oggettiva e soggettiva dei fatti – che sola consentirebbe di discorrere di “altro procedimento” – è che dalla documentazione degli atti si evince che il Pubblico Ministero non ha posto all’attenzione dell’imputato episodi criminosi o temi investigativi oggettivamente e soggettivamente diversi rispetto a quelli oggetto del presente procedimento, ma ha chiesto di sviluppare i temi già “toccati” in precedenza e di approfondire, descrivere ed esplicitare ogni circostanza relativa proprio e soltanto all’uccisione di Saman Abbas». Si tratta, cioè, «di dichiarazioni sollecitate e rese sì formalmente in un altro procedimento, ma niente affatto estranee ai fatti oggetto del presente, che dunque non possono in alcun modo considerarsi come dichiarazioni rese in occasione del compimento di indagini per reati connessi o collegati».
Concorre a disvelare la sostanziale identità dei procedimenti – aggiungono i giudici – «la circostanza che, non a caso, il P.M. abbia prodotto i verbali relativi ai procedimenti iscritti a mod. 44 e 45 all’udienza del 14 luglio 2023, ossia allorquando era stato programmato l’esame degli imputati – cui l’imputato in questione dichiarava di non volersi sottoporre – con ciò dimostrando, nei fatti, di aver sin da principio concepito quei due interrogatori come relativi alle contestazioni per le quali era già stato disposto il rinvio a giudizio dell’imputato e, nella seconda occasione, già intervenuta la dichiarazione di apertura del dibattimento».
Alla luce della «natura solo formalmente diversa dei procedimenti» e premesso che «nel presente procedimento il Pubblico Ministero ha proceduto, in ben due occasioni, all’interrogatorio dell’imputato nell’ambito di attività integrativa di indagine ai sensi dell’art. 430 cod. proc. pen.», la Corte ricorda come «tale norma, come chiaramente evincibile dal tenore letterale della disposizione e dall’interpretazione che di essa ha offerto la Suprema Corte, vieta l’assunzione di atti garantiti, quale appunto l’interrogatorio dell’imputato, nei cui confronti sia già stato disposto il rinvio a giudizio, in cui è obbligatoria la partecipazione del difensore».
Ne consegue che gli interrogatori «ricadevano nei divieti di attività integrativa di indagine stabiliti dall’art. 430 cod. proc. pen. e non potrebbero essere utilizzati in alcun modo, né ai fini delle contestazioni nel corso dell’esame dibattimentale dell’imputato né – per ciò che più rileva in questo momento – ai fini dell’acquisizione consensuale al fascicolo del dibattimento ex art. 493, comma terzo, cod. proc. pen., vertendo il consenso su un atto affetto da vizio radicale, non suscettibile di sanatoria», a nulla rilevando che l’imputato o il difensore abbiano ad essi in concreto partecipato, «in quanto la norma che stabilisce il divieto è diretta a individuare in astratto una categoria di atti per i quali l’attività integrativa di indagine non è consentita ed è, comunque, improduttiva di effetti».
In altri termini, «l’avvenuta violazione del disposto dell’art. 430 cod. proc. pen. ha dato causa ad un vizio cui non è possibile porre rimedio – non valendo a sanare la patologia né la presenza del difensore né il consenso alla acquisizione dei relativi verbali».
La medesima violazione – ha concluso la Corte – «ha pregiudicato l’attività istruttoria, privando la Corte di elementi conoscitivi e dichiarativi, di rilevanza potenzialmente notevole, e di cui sarebbe dovuta essere, per legge, l’unica destinataria e non si può sostenere che il rispetto della disposizione di cui all’art. 430 cod. proc. pen. e della preclusione ivi imposta al P.M. ed al difensore avrebbe impedito il compimento di attività utili all’accertamento dei fatti – quale, indubbiamente, è stato il rinvenimento del cadavere della vittima».
Infatti, se, da un lato, l’art.430 cod. proc. pen. «vieta al pubblico ministero (ed al difensore) dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio, di compiere atti per i quali è prevista la presenza del difensore o dell’imputato», dall’altro, la stessa disposizione «non gli vieta però di compiere altre indagini o di ricevere dall’indagato dichiarazioni spontanee».
Del resto, è la stessa giurisprudenza di legittimità – si osserva – «ad aver precisato che, dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio il pubblico ministero, pur non potendo convocare l’imputato per interrogarlo, ha comunque la possibilità di ricevere e verbalizzare le sue dichiarazioni spontanee: è stato affermato, ad esempio, che anche dopo che è stato disposto il giudizio, la polizia giudiziaria ed il pubblico ministero non possono rifiutarsi di ricevere e documentare le dichiarazioni rese spontaneamente da un indagato in merito alla responsabilità di altri o al luogo dove è stato occultato il cadavere dell’ucciso».
Tanto a dimostrazione – si conclude – «della serietà della violazione e della sua agevole evitabilità, considerato che per raccogliere risultati investigati utilmente spendibili in giudizio sarebbe bastato limitarsi a raccogliere le dichiarazioni spontanee dell’imputato – non potendo queste ultime assolutamente parificarsi a quelle provocate dagli investigatori».