Pene naturali: ci rivedremo presto. Un commento a prima lettura della sentenza n. 48/2024 della Corte costituzionale
in Giurisprudenza Penale Web, 2024, 3 – ISSN 2499-846X
Corte costituzionale, 25 marzo 2024, sentenza n. 48
Presidente Barbera, Relatore Petitti
Come avevamo anticipato, il Tribunale di Firenze aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 529 c.p.p., nella parte in cui, per i procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità di emettere sentenza di non doversi procedere, allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso.
La Corte Costituzionale, con pronuncia n.48 del 25 marzo 2024, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità, ha riconosciuto la centralità del tema, indicando una strada da seguire nei futuri giudizi di legittimità.
1. C’è colpa e colpa. Si osserva, anzitutto, che il riferimento all’improcedibilità, in tutte le ipotesi nelle quali sia causata la morte della vittima “per colpa” pecca di eccessiva genericità. Le varie specie di colpa enucleabili da questa nozione omnicomprensiva – colpa generica («negligenza o imprudenza o imperizia») e colpa specifica («inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline»), colpa incosciente (senza previsione dell’evento) e colpa cosciente (con previsione dell’evento), colpa comune (fondata su una posizione di garanzia non tecnica) e colpa professionale (fondata su una posizione di garanzia qualificata) –corrispondono infatti a ipotesi molto diverse tra loro: la colpa cosciente è persino prevista come aggravante comune, mentre nella colpa professionale, che caratterizza i luoghi di lavoro, viene in rilievo un obbligo di garanzia regolato a protezione di soggetti particolarmente esposti.
Inoltre, la considerazione di tutti i “reati” colposi aprirebbe a una considerazione delle pene naturali in relazione a tutte le contravvenzioni, le quali, per tali fini, andrebbero considerate appunto reati colposi, in base all’art. 43, II, c.p., ciò che svilirebbe la funzione preventiva delle pertinenti norme incriminatrici, in particolare delle numerose contravvenzioni per inosservanza delle misure di sicurezza dei lavoratori.
2. Non “prossimo congiunto”, ma la sola famiglia nucleare. In secondo luogo, si ritiene che il riferimento al prossimo congiunto, avanzato dal Giudice remittente, non postula necessariamente che tra il reo e la vittima sussista un rapporto affettivo considerato dall’ordinamento – in base all’id quod plerumque accidit – di un’intensità tale da far presumere l’equivalenza sostanziale tra pena naturale e pena giuridica (in base all’art.307, IV, c.p. ricadono s’intendono tali “gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti”). Si tratta di un novero soggettivo al tempo stesso troppo ristretto, per l’indebita esclusione del convivente more uxorio e molto ampio, in quanto si estende ben oltre la famiglia nucleare, fino a includere rapporti di parentela in linea collaterale di grado inferiore al secondo, e persino vincoli di affinità (tranne che sia morto il coniuge e non vi sia prole, come precisa lo stesso art. 307, quarto comma).
3. L’istituto della pena naturale va ricondotto al piano sostanziale e presuppone il pieno accertamento del fatto.
Soprattutto, la Corte ritiene che un evento di questo tipo non potrebbe mai configurare una causa di non procedibilità, in quanto ciò determinerebbe effetti ben diversi che farne una causa di non punibilità, in particolare, riguardo all’iscrizione della pronuncia nel casellario giudiziario, all’idoneità della stessa a formare il giudicato sull’illiceità penale della condotta e, di conseguenza riguardo all’impugnabilità della pronuncia medesima (sentenza n. 120 del 2019; testualmente: “orbene, non vi sono ragioni costituzionali in base alle quali la pena naturale da omicidio colposo del prossimo congiunto debba integrare una causa di non procedibilità, anziché, in thesi, un’esimente di carattere sostanziale, ovvero ancora una circostanza attenuante soggettiva”). Del resto, la stessa sentenza di non doversi procedere, ex 529 c.p.p. mal si attaglierebbe alla fattispecie in esame, perché essa è atto di natura strettamente processuale, mentre la rilevanza della pena naturale richiederebbe comunque un accertamento di fatto.
L’intento sotteso alla causa d’improcedibilità, di risparmiare al reo le sofferenze derivanti dal giudizio, del resto, si scontra con l’esigenza psichica prima ancora che giuridica dell’autore, in questi delicatissimi contesti, di conoscere quali siano le sue reali responsabilità rispetto al fatto e se queste esistano. Le pene naturale potrà essere riconosciuta esclusivamente in relazione a fatti che siano stati oggetto di pieno accertamento, ripudiando ogni forma di indulgenzialismo, o di rinuncia all’azione penale, che equivarrebbe alla negazione di ogni diritto, anzitutto dell’imputato, nella sua duplice veste di autore e di vittima.
Electa una via non datur recursus ad alteram. Tutto lascia supporre che la Corte Costituzionale, laddove fosse sollevata una nuova questione di legittimità, nel rispetto dei tre paletti sopra richiamati, sarebbe pronta a riconoscerne la fondatezza.
Va, tuttavia, segnalata una diversa possibilità che non renderebbe necessario un nuovo intervento del giudice delle leggi. Sono ovviamente derogabili, entro certi limiti, i minimi edittali stabiliti dalla specifica previsione incriminatrice. In presenza di una pena naturale: dando per scontata una valutazione ex 133 c.p. ai minimi di pena, si potrà riconoscere l’applicazione di una doppia diminuente:
– l’art.62bis c.p. (pacificamente riconosciuto)
– l’art.62 n.6 c.p., in ragione della valutazione conciliativa sottesa alle modifiche apportate dal d. lgs. n.150 del 2022.
Quantomeno nei reati, nei quali l’unica vittima è il reo stesso, per i danni che ha riportato, o per il rapporto familiare o affettivo con la vittima, il presupposto della riappacificazione, stabilita dal “programma” riparativo, è il pieno riconoscimento da parte dello Stato della pena naturale già subita dall’Autore, con conseguente mitigazione della pena.
Stabilito che possa procedersi alla doppia riduzione, nei termini sopra delineati, la diminuzione di pena soggiace alle regole stabilite dagli artt.63 e 67 c.p. per l’esistenza di più circostanze attenuanti (diminuzione che opera sulla quantità risultante dalla diminuzione precedente, nei limiti massimi di 1/4 della pena edittale minima e, comunque, non inferiore a 15 giorni, in base a quanto previsto dall’art.23 c.p.).
Se è vero che, nel sistema attuale, i margini di discrezionalità, nell’esercizio del potere discrezionale, superano di gran lunga gli angusti confini della previsione edittale, anche in relazione ai minimi, siano essi speciali o generali. Al cospetto di una pena naturale, l’irrogazione conforme ai minimi edittali esprimerebbe solo istanze irrazionali, connesse al bisogno di pena dei consociati, parametrate a contingenti allarmismi mediatici e svuoterebbe la prospettiva individualizzante, sottesa al progetto rieducativo, rendendo la pena un fatto lesivo della dignità umana.
Come citare il contributo in una bibliografia:
M. Zincani, Pene naturali: ci rivedremo presto. Un commento a prima lettura della sentenza n. 48/2024 della Corte costituzionale, in Giurisprudenza Penale Web, 2024, 3