Fine vita: la Cassazione si pronuncia, in tema di istigazione al suicidio (art. 580 c.p.), sulla condotta di chi abbia fornito informazioni (o espresso opinioni) sulle opzioni astrattamente percorribili
Cassazione Penale, Sez. V, 7 maggio 2024 (ud. 14 febbraio 2024), n. 17965
Presidente Vessicchelli, Relatore Pistorelli
Segnaliamo, in tema di istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), la sentenza con cui la Corte di cassazione si è pronunciata sulla rilevanza penale, in punto di tipicità, di condotte consistenti nel fornire informazioni sulle pratiche di suicidio assistito in Svizzera.
Quella configurata dall’art. 580 c.p. – si legge nella sentenza – “è nella sua sostanza una fattispecie plurisoggettiva necessaria impropria, atteso che alla produzione di uno degli eventi tipizzati dalla norma incriminatrice devono necessariamente concorrere l’azione autolesiva del soggetto passivo (di per sé non punibile) e la condotta del soggetto attivo del reato, che deve risolversi in una forma di istigazione, ossia nella determinazione o nel rafforzamento dell’altrui volontà suicida, ovvero di agevolazione dell’esecuzione del suicidio. Ferma restando l’inapplicabilità delle disposizioni sul concorso di persone nel reato, atteso che – come detto – la condotta autolesiva del suicida non integra di per sè un illecito penale, il reato è dunque integrato da una partecipazione morale o materiale all’ideazione od esecuzione dell’altrui proposito suicidario“.
In tal senso, “la condotta dell’agente, per essere tipica, deve assumere una oggettiva efficienza nella causazione dell’evento del reato (Sez. 5, n. 22782 del 28/04/2010, Bagarini, Rv. 247519), la cui produzione deve comunque materialmente rimanere affidata all’azione del soggetto passivo, configurandosi altrimenti diverse ipotesi di reato, come quelle previste dagli artt. 575 e 579 c.p. Ed infatti per la legge penale, come sottolineato già nella Relazione al codice penale, il suicidio è un atto volontario compiuto personalmente per procurarsi la morte nella consapevolezza della sua natura autolesiva”.
La condotta di partecipazione morale – contestata all’imputato nella forma, secondo la concorde ricostruzione di entrambi i giudici del merito, del rafforzamento della volontà suicidaria – “rappresenta dunque, sul piano condizionalistico, un mero antecedente necessario dell’evento, che influisce, sul piano psicologico, sulla determinazione del soggetto passivo di compiere il gesto autolesivo“.
In accordo con la dottrina più accorta – prosegue la Corte – “deve ritenersi, però, che, per risultare tipica, la condotta di partecipazione morale deve presentare un “intrinseco finalismo“ orientato all’esito finale, sussistendo altrimenti il rischio di dilatare oltremodo il perimetro oggettivo della fattispecie fino a ricomprendere qualsiasi condotta umana che abbia comunque suscitato o rafforzato l’altrui volontà suicidaria comunque liberamente formatasi“.
Alla luce di tali principi – concludono i giudici – “la motivazione della sentenza impugnata appare anzitutto inadeguata nell’individuazione nella condotta attribuibile all’imputato dei caratteri di tipicità della fattispecie contestata“.
Essendosi in presenza di un dialogo con con finalità informativo – divulgative, “la Corte avrebbe dovuto innanzi tutto spiegare in che termini le stesse debbano ritenersi specificamente orientate a rafforzare la volontà dell’interessata di accedere al suicidio – vincendone dunque eventuali resistenze – e non rappresentino piuttosto la generica manifestazione delle astratte opinioni dell’imputato sul fine vita, tanto più che la conversazione di cui si tratta sembra aver degradato fin dall’inizio verso temi escatologici privi di evidente rilevanza ai fini della dimostrazione dell’accusa“.
I giudici di merito “hanno desunto la tipicità della condotta dal fatto che l’imputato non si sia limitato a fornire le informazioni richieste per mettersi in contatto con la clinica svizzera abilitata a somministrare il suicidio assistito, ma avrebbe divagato, intrattenendo la sua interlocutrice sulla supposta bontà della scelta suicidaria“.
Premesso che la circostanza non sarebbe comunque idonea a dimostrare la tipicità della condotta – osserva la Corte – “è evidente come i giudici del merito abbiano cercato surrettiziamente di configurare in capo all’imputato una sorta di posizione di garanzia nei confronti di coloro che si rivolgono all’associazione da lui presieduta, in ragione della quale non gli sarebbe lecito manifestare le proprie opinioni generali sul fine vita, dovendosi invece fare carico della plausibile situazione di fragilità psicologica dei propri interlocutori, se non addirittura di dissuaderli dal loro proposito. Posizione di garanzia la cui base giuridica non è meglio individuata dalla sentenza e la cui insussistenza è invero di lampante evidenza, salvo, forse, nel caso in cui non ricorrano gli estremi della situazione presupposta dall’art. 593 comma secondo c.p., invero mai ipotizzata nel caso di specie“.
In conclusione, “anche ammesso – ma si ripete non dimostrato dai giudici del merito – che la condotta contestata all’imputato corrisponda nella sua oggettività (anche nella sua dimensione condizionalistica) a quella tipizzata dall’art. 580 c.p., onere della Corte era quello di evidenziare le ragioni per cui egli non possa eventualmente aver agito in maniera solo imprudente e, qualora avesse ritenuto atteggiarsi il dolo nella sua forma eventuale, se e per quale motivo possa ritenersi che l’imputato si fosse chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi, facendo riferimento ai noti parametri probatori in tal senso individuati dalla giurisprudenza di legittimità“.