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Pagamento del compenso all’avvocato e configurabilità del reato di ricettazione: una recente ordinanza del GIP del Tribunale di Milano

Tribunale di Milano, Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari, Ordinanza, 3 maggio 2024
Dott. Roberto Crepaldi

Segnaliamo, in considerazione dell’interesse mediatico e giuridico della vicenda – oggetto di plurime prese di posizione in questi giorni, tra cui quelle dell’Unione delle Camere Penali Italiane, dell’Ordine degli Avvocati di Milano e della Camera Penale di Milano – l’ordinanza con cui il Tribunale di Milano si è pronunciato sulla configurabilità del delitto di ricettazione aggravata nei confronti di due avvocati penalisti indagati e destinatari di una richiesta di applicazione della misura interdittiva della sospensione dall’attività professionale, ex art. 290 c.p.p., per aver ricevuto, sotto forma di compenso per prestazioni professionali, denaro contante di (ritenuta) provenienza illecita.

Secondo la condivisibile giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite – si legge nel provvedimento – «l’elemento psicologico della ricettazione può essere integrato anche dal dolo eventuale, configurabile in presenza della rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto e della relativa accettazione del rischio, non potendosi desumere da semplici motivi di sospetto, né potendo consistere in un mero sospetto».

Se già, in tale occasione, la Corte aveva precisato che «il dolo eventuale è ravvisabile quando l’agente, rappresentandosi l’eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuto la certezza», ad avviso del Tribunale di Milano «ancora maggiore cautela deve essere serbata con riguardo alla peculiare posizione dell’avvocato penalista per un duplice ordine di ragioni».

In primo luogo, «egli ha fisiologicamente rapporti economici con soggetti quantomeno sospettati di aver commesso un delitto, cosicché l’eventuale consapevolezza della qualità criminale del proprio debitore – già insufficiente secondo l’opinione della Suprema Corte in relazione ad un normale rapporto obbligatorio – deve essere considerata irrilevante; se così non fosse, infatti, il difensore non potrebbe mai esigere il pagamento degli onorari dal proprio assistito quando egli gli abbia confessato – in seno al rapporto fiduciario – di essere dedito al crimine, ovvero dopo la condanna definitiva del cliente privo di lecite fonti di reddito».

In secondo luogo, «non può non evidenziarsi la delicatezza della situazione qui vagliata, stante la necessità di considerare gli interessi sottesi al rapporto difensivo, il quale si differenzia da qualsiasi altro rapporto contrattuale perché attiene al fondamentale – anche sul piano costituzionale – diritto di difesa; ci si deve domandare, in altre parole, che ne sarebbe del diritto di difesa se i rapporti economici tra indagato e difensore fossero scandagliati sotto la lente – particolarmente penetrante – della ricettazione e/o dell’incauto acquisto».

Si tratta di una questione – prosegue il Tribunale di Milano – «inedita per la giurisprudenza italiana ma ben conosciuta a quella tedesca: la Bundesverfassungsgericht ha affermato che l’applicazione del geldwäsche (fattispecie che equivale al nostro riciclaggio ma che copre anche l’ambito applicativo della ricettazione) rispetto a pagamenti di prestazioni forensi è suscettibile di pregiudicare il diritto al libero esercizio della professione e il diritto di difesa del cliente. Cosicché, il principio di proporzionalità richiede un approccio restrittivo alle eventuali incriminazioni a titolo di riciclaggio sul piano del coefficiente psichico, potendosi ammettere incriminazioni solo quando il professionista abbia piena ed attuale consapevolezza dell’origine delittuosa del denaro, lasciando fuori dall’area della rilevanza penale situazioni di mero sospetto».

Ma al di là degli esiti – si legge nell’ordinanza – «la riflessione della Corte costituzionale tedesca è interessante perché evidenzia come le imputazioni di riciclaggio (qui ricettazione) in relazione ai pagamenti ricevuti dai difensori da parte dei loro assistiti/indagati rischi di interferire con la serenità del rapporto difensivo (intesa come libertà dell’assistito di confidare particolari contra se e del difensore di ricevere tali confidenze), di creare conflitti di interessi tra difensore e assistito, costringendolo a scegliere tra la rinuncia al mandato e il compenso e, in fondo, interferendo con il diritto costituzionale di difesa».

Secondo il Tribunale di Milano, «la soluzione della giurisprudenza tedesca, per quanto largamente insoddisfacente sul piano della certezza del diritto, consente di bilanciare adeguatamente tale diritto con la necessità di non creare vuoti di tutela rispetto alla fondamentale esigenza di trasparenza del sistema economico».

Con la conseguenza che un avvocato penalista «potrà essere punibile solo se ha acquisito, al momento dell’accettazione, la certezza che il denaro proviene da reato, senza che si possano imporre a questi obblighi di indagine sulle fonti di reddito (legali o illegali) del cliente».

Ciò premesso, il Tribunale ha ritenuto che nel caso di specie non vi fossero i presupposti per ritenere integrato il delitto di ricettazione posto che, al di là di generiche affermazioni circa il legame di amicizia indissolubile che si sarebbe venuto a creare tra i tre, «non è stata evidenziata alcun rapporto anomalo tra i due difensori e l’indagato, nè sono emerse condotte di favoreggiamento dei difensori o altro che, sotto il profilo penale o anche solo deontologico, suggerisca una cointeressenza patologica».

In conclusione, «l’unico fattore di sospetto resta  il mezzo del pagamento (id est il denaro contante), certamente anomalo in quanto superiore ai limiti di legge e in sé suggestivo di una scarsa trasparenza dell’origine»; tuttavia, «deve considerarsi come il quadro sia reso ulteriormente incerto, sotto il profilo della piena consapevolezza dei due, dalle caratteristiche del debitore: il contante, infatti, potrebbe trovare spiegazione alternativa anche nel fatto che trattasi di soggetti stranieri, privi di un’occupazione in Italia e il cui sostentamento ben potrebbe essere garantito da soggetti ancora residenti in patria, i quali invierebbero le somme necessarie in contanti».

Redazione Giurisprudenza Penale

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