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Loggia Ungheria: le motivazioni della sentenza della Corte di Appello di Brescia

Corte di Appello di Brescia, Sez. I penale, 24 maggio 2023, n. 406
Presidente dott.ssa Anna Maria Dalla Libera, Relatore dott. Guido Taramelli

Segnaliamo ai lettori, in considerazione dell’interesse giuridico e mediatico della vicenda (relativa alla cd. “loggia Ungheria“), le motivazioni della sentenza della Corte di Appello di Brescia nel procedimento che vede imputato l’ex magistrato Piercamillo Davigo per rivelazione di segreto d’ufficio (art. 326 c.p.).

Si precisa che la sentenza viene pubblicata per estratto – limitatamente ai passaggi rilevanti in diritto – e previa omissione delle generalità e dei dati identificativi dei soggetti coinvolti (come indicato in calce al provvedimento).


La Corte ha preso le mosse soffermandosi sul tema del concorso dell’extraneus nel delitto di rivelazione del segreto d’ufficio commesso dall’intraneus, in risposta all’argomento difensivo secondo cui «il reato si sarebbe perfezionato nel momento in cui la notizia sarebbe stata rivelata dall’intraneus al primo, di tal che la successiva condotta sarebbe un post factum non punibile».

In altri termini – secondo la ricostruzione difensiva – «non potrebbe sussistere un concorso di reato nel proposito criminoso altrui, ai sensi dell’art. 110 c.p., dal momento in cui il concorrente è stato assolto giustappunto per mancanza di finalità illecita», né «sarebbe stata contestata l’ipotesi mediata di cui all’art.48 c.p. in ordine all’induzione dolosa cli taluno mediante inganno a commettere per errore il reato».

La Corte di Appello ha osservato come «le contestazioni dell’appellante non tengano conto della giurisprudenza della Corte di Cassazione sul tema, secondo cui integra il concorso nel delitto di rivelazione di segreti d’ufficio la divulgazione da parte dell’extraneus di una notizia segreta, riferitagli come tale, realizzandosi in tal modo una condotta ulteriore rispetto a quella dell’originario propalatore».

Da ciò si evince – si legge nella sentenza – «che, se la condotta dell’intraneus si consuma nel momento in cui svela all’extraneus la notizia riservata, la condotta di quest’ultimo di successiva rivelazione ad altri di detta circostanza costituisce tutt’altro che un post factum non punibile, ma determina la realizzazione di altra e ulteriore condotta di rivelazione distinta da quella dell’originario autore del reato».

Né assume rilievo – proseguono i giudici – l’intervenuta assoluzione di altro magistrato, «posto che la stessa non è avvenuta per insussistenza del fatto, ma per carenza dell’elemento soggettivo».

Sul tema «si rileva che ai fini della configurabilità della responsabilità dell’extraneus per concorso nel reato proprio, è indispensabile, oltre alla cooperazione materiale ovvero alla determinazione o istigazione alla commissione del reato, che l’intraneus esecutore materiale del reato sia riconosciuto responsabile del reato proprio, indipendentemente dalla sua punibilità in concreto per l’eventuale presenza di cause personali di esclusione della responsabilità». Ed, invero – si prosegue – «la formula assolutoria adottata dai giudici di merito dell’altro processo opera esclusivamente sul piano personale, posto che la mancanza di colpevolezza è stata ancorata all’affidamento non colpevole della prospettazione proveniente dall’autorevole componente del C.S.M. dell’epoca secondo cui egli, in quanto tale, era pienamente autorizzato a ricevere notizie coperte da segreto investigativo».

In conclusione, è stato affermato il principio secondo cui «l’assoluzione per difetto dell’elemento soggettivo in capo al concorrente “intraneo” nel reato proprio non esclude di per sé la responsabilità del concorrente “estraneo”, che resta punibile nei casi di autorità mediata di cui all’art. 48 c.p., o in tutti gli altri casi in cui la carenza dell’elemento soggettivo riguardi solo il concorrente “intraneo” e non sia quindi a lui estensibile».

Si passa poi al tema dell’oggetto della rivelazione del segreto d’ufficio, affermando che «la norma di cui all’art.326 c.p. non parla di atti, ma di notizie, con ciò rimandando al contenuto dell’atto investigativo e non già alla veste formale con la quale viene trasmesso, di tal che il reato è integrato allorché vengano riportate notizie inerenti all’ufficio pubblico ricoperto e che siano destinate a rimanere segrete, a prescindere dalla forma con le quali vengano rivelate».

Quanto alla natura di reato di pericolo del reato di cui all’art.326 c.p., la Corte di Appello ricorda come sia «ormai pacifica la giurisprudenza sulla natura del reato in contestazione, all’indomani dell’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, con la nota sentenza n.4694 del 27 .10.2011, con cui si è affermato che il delitto di rivelazione di segreti d’ufficio riveste natura di reato di pericolo effettivo e non meramente presunto nel senso che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento a mezzo della notizia da tenere segreta».

Al collegio – prosegue la sentenza – «pare di particolare pregnanza il passaggio motivazionale della sentenza citata, nella parte in cui, dopo avere affermato che le ipotesi di non punibilità del reato di cui all’art.326 c.p. per inoffensività del fatto risultano comunque limitate a casi assai circoscritti, viene evidenziato che quando è la legge a prevedere l’obbligo del segreto in relazione ad un determinato atto o in relazione ad un determinato fatto, il reato sussiste senza che possa sorgere questione circa l’esistenza o la potenzialità del pregiudizio richiesto, in quanto la fonte normativa ha già effettuato la valutazione circa l’esistenza del pericolo, ritenendola conseguente alla violazione dell’obbligo del segreto».

Se così è, «è evidente che, nel momento in cui è lo stesso art.329 c.p.p. a indicare che, come nel caso di specie, gli atti di indagine sono atti coperti da segreto tout court e che, anche quelli non più coperti da segreto, possono essere secretati con decreto motivato del pubblico ministero in caso di necessità per la prosecuzione delle indagini, la valutazione circa la sussistenza del pericolo della loro divulgazione è già stata fatta, a monte, dalla norma primaria senza che possa essere rimesso all’interprete la valutazione del rischio».

Da ultimo, quanto al profilo dell’elemento soggettivo, si afferma che «il reato di cui all’art. 326 c.p. è punibile a titolo di dolo generico, consistente nella volontà consapevole della rivelazione e nella coscienza che la notizia costituisce un segreto di ufficio, essendo, perciò, irrilevante il movente ovvero la finalità della condotta e senza che possa aver alcun valore esimente l’eventuale errore sui limiti dei propri e degli altrui poteri e doveri in ordine a dette notizie».

Nel caso di specie – si conclude – «nemmeno l’appellante profila la sussistenza di errori sulle proprie e sulle altrui attribuzioni, cosa che, del resto, sarebbe impensabile stante il suo spessore professionale».

Redazione Giurisprudenza Penale

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