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Processo “Ruby-ter”: le note di udienza della Procura Generale della Corte di Cassazione

Procura Generale della Corte di cassazione, ud. 5 giugno 2024
Dott. Roberto Aniello

Segnaliamo, con riferimento alla vicenda cd. “Ruby-ter“, le note di udienza depositate dalla Procura Generale della Corte di cassazione – in persona del dott. Roberto Aniello – in occasione dell’udienza fissata a seguito del ricorso diretto per cassazione presentato dalla Procura di Milano avverso la sentenza con cui il Tribunale di Milano, in data 15 maggio 2023, ha assolto gli imputati per i delitti di corruzione in atti giudiziari, falsa testimonianza e riciclaggio con la formula “perché il fatto non sussiste”.

1. Appare prioritaria dal punto di vista logico – si legge nel documento – la trattazione del secondo motivo di ricorso, il quale concerne la configurabilità del reato di corruzione in atti giudiziari, «negata dal Tribunale sulla scorta delle considerazioni contenute nella sentenza delle Sezioni Unite n. 15208/2010, Mills, che ha ritenuto, “a fronte della mancanza di una previsione che, in analogia a quella di cui all’art. 384, 2° comma, cod. pen., “scrimini” il reato di corruzione in atti giudiziari sulla base della errata attribuzione al teste di tale qualità […] che il giudice possa comunque “autonomamente” apprezzare, ora per allora (e sempre che, naturalmente, egli possa disporre di elementi di fatto idonei a consentirgli un tale giudizio) la corretta qualifica da attribuirsi al “dichiarante”, eventualmente discostandosi anche dalle valutazioni e dalle conclusioni a suo tempo effettuate dal giudice del procedimento in cui tali dichiarazioni furono rese».

Il diritto positivo – osserva la Procura Generale – «prevede, all’art. 384 comma 2 c.p., quella che la stessa disposizione definisce testualmente una causa di esclusione della punibilità: per colui che ha posto in essere una condotta di false dichiarazioni, nelle diverse ipotesi di cui agli artt. 371 bis, 371 ter, 372 e 373 c.p., la punibilità è esclusa se il dichiarante non avrebbe dovuto essere sentito in quella veste o essere obbligato a rispondere o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astensione“.

La ratio della norma è chiara: «qualora l’ordinamento riconosca ad un soggetto la facoltà di non rendere dichiarazioni – per qualsiasi ragione – la violazione di questo diritto comporta l’inesigibilità di un comportamento conforme alla legge, cioè quello di riferire veridicamente i fatti di cui si è a conoscenza. La falsità delle dichiarazioni rimane ovviamente tale (altrimenti non saprebbe neppure astrattamente ipotizzabile il reato), ma la condizione soggettiva del dichiarante, che non è quella prevista dalla legge affinché vi sia l’obbligo di rendere dichiarazioni veritiere, determina la non punibilità del dichiarante stesso».

Nelle note di udienza si evidenzia come se, da un lato, si discuta, in dottrina, «se questa situazione escluda la tipicità del fatto o costituisca una causa di esclusione soggettiva della colpevolezza», dall’altro, «la giurisprudenza che si è occupata della causa di non punibilità di cui all’art. 384 comma 2 c.p., anche successivamente alla sentenza Mills, risulta orientata tutta in questa seconda direzione, diversamente dalla sentenza Mills; non vi sono, in verità, molte pronunce, ma esse sono pertinentemente richiamate nel ricorso».

Il potere di valutare, ora per allora, «la corretta qualifica da attribuirsi al dichiarante certamente da esercitare per il reato di falsa testimonianza, nonché per i reati di cui agli artt. 371 bis, 371 ter e 373, per i quali è espressamente prevista la causa di non punibilità di cui all’art. 384 comma 2 c.p. – non è contemplato in relazione ad altri reati».

Si tratta – ad avviso della Procura Generale – di «un dato di fatto irrefutabile: il legislatore ha inteso prevedere una causa di non punibilità soltanto in relazione ai reati nei quali la condotta consiste esclusivamente nel rendere dichiarazioni false». Il reato di cui oggi si discute «è ben diverso, come si è già osservato, anche se si interseca con la falsa testimonianza: è la corruzione del pubblico ufficiale – nella specie, il testimone – affinché compia un atto contrario ai doveri d’ufficio – la falsa testimonianza – al fine di favorire una parte – l’imputato Berlusconi – in un processo penale».

La tesi del Tribunale è che, «essendo tutte le attuali imputate già raggiunte da indizi di reato prima di essere escusse come testimoni, non hanno mai assunto la qualità di testimone e quindi di pubblico ufficiale, cosicché è venuto a mancare uno degli elementi costitutivi del delitto di corruzione in atti giudiziari. Infatti, poiché il testimone non doveva essere sentito in tale qualità, non ha assunto la veste di pubblico ufficiale e di conseguenza viene meno un elemento costitutivo del reato, essendo pacifico che una delle parti dell’accordo corruttivo debba essere pubblico ufficiale, cosicché rimane esclusa la tipicità della fattispecie».

Tale impostazione, ad avviso della Procura Generale, «non appare condivisibile».

Anzitutto, si sottolinea nelle note di udienza che i requisiti formali della testimonianza risultano tutti sussistenti (ammissione dei testi, citazione degli stessi, dichiarazioni rese previo impegno a dire la verità) e  «la valutazione, successivamente intervenuta, della erroneità dell’audizione in qualità di testimoni degli attuali imputati non determina l’inesistenza giuridica della qualificazione come testimoni di soggetti che non erano nelle condizioni per acquisire tale qualità, né l’inesistenza giuridica dell’atto compiuto, cioè la testimonianza».

Nel caso di specie – prosegue la Procura – «siamo certamente al di fuori di una siffatta situazione, ricorrendo invece una illegittimità dell’atto di investitura dello status di testimone che ha le sole conseguenze previste dalla legge, che sono, da un lato, l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese, dall’altro, la non punibilità – per i soli testimoni – ex art. 384 comma 2 c.p. Del resto, se tale causa di non punibilità non fosse esclusivamente soggettiva e si risolvesse in un difetto di tipicità, non vi sarebbe stata ragione di inserire un’apposita disposizione». Dunque, secondo la Procura «si può affermare che l’illegittima ammissione ed escussione dei testimoni dà luogo a un’ipotesi che è stata oggetto di numerose pronunce della Suprema Corte: quella dell’esercizio di fatto di pubbliche funzioni».

In conclusione, «seppure l’audizione delle attuali imputate in qualità di testimoni sia stata illegittima in quanto esse erano già raggiunte da indizi di reato, ciò non incide sulla sussistenza del reato di corruzione in atti giudiziari, che rimane configurabile in quanto le funzioni di pubblico ufficiale sono state concretamente esercitate».

2. Da ultimo, quanto al momento dell’assunzione della qualità di testimone – e, dunque, di pubblico ufficiale – ad avviso della Procura Generale, il motivo è certamente fondato (e potrà avere rilevanza nel caso di un nuovo giudizio di merito), non potendo esserci dubbi «sul fatto che, nel momento in cui il giudice emette l’ordinanza di ammissione delle prove, i soggetti ammessi a deporre acquisiscono la qualità di testimone, poiché vi è un atto formale del giudice che ha sicuramente efficacia costitutiva».

Secondo la Procura, «il riferimento, contenuto in molte pronunce di legittimità, all’autorizzazione alla citazione dei testimoni quale atto in seguito al quale si assume la veste di testimone è correlato all’ipotesi ordinaria del codice di cui all’art. 468 comma 2 c.p.p., allorquando il presidente autorizza la citazione dei testi indicati nelle liste testimoniali, non all’autorizzazione successiva all’ammissione delle prove» ed è, pertanto, «evidente l’esattezza dei rilievi contenuti nel ricorso in merito all’equivoco in cui è incorso il Tribunale nell’interpretare le sentenze della Corte di Cassazione».

Ne deriva che «i testimoni hanno assunto formalmente tale qualità il 23.11.2011, data dell’ordinanza di ammissione delle prove nel processo cosiddetto Ruby1».

Redazione Giurisprudenza Penale

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