ARTICOLIDIRITTO PROCESSUALE PENALE

Nullità della richiesta di rinvio a giudizio, imputazione “alternativa” e imputazione “ibrida”

Cassazione Penale, Sez. VI, 9 agosto 2024 (ud. 4 luglio 2024), n. 32481
Presidente Di Stefano, Relatore Gallucci

Segnaliamo ai lettori la sentenza – resa nell’ambito del procedimento relativo alle procedure concorsuali per il conferimento di attività didattiche integrative del Dipartimento di Scienze biomediche e cliniche “Luigi Sacco” dell’Università di Milano – con cui la sesta sezione penale della Corte di cassazione si è pronunciata in merito al rapporto tra la declaratoria di nullità della richiesta di rinvio a giudizio (con specifico riferimento ad una eventuale sua abnormità) e la formulazione di imputazioni “alternative” o “ibride“.

L’ordinanza con la quale viene dichiarata da parte del giudice del dibattimento la nullità dell’atto imputativo – si legge nella pronuncia – “non è soggetta alle ordinarie impugnazioni e, per questo motivo, “il PM ricorrente ne ha dedotto l’abnormità, condizione talmente patologica da consentire l’immediato ricorso per cassazione“.

Le Sezioni Unite – prosegue il collegio – “hanno ribadito che l’area dell’abnormità, ricorribile per cassazione, nella sua duplice accezione (strutturale e funzionale), va rigorosamente delimitata, non potendosi considerare abnorme un atto quando non sia totalmente avulso dal sistema processuale e non determini una stasi irrimediabile del procedimento. Resta, dunque, escluso che, come precisato anche dalla dottrina, possa invocarsi la categoria dell’abnormità per giustificare la ricorribilità immediata per cassazione di atti illegittimi, affetti soltanto da nullità o comunque sgraditi e non condivisi, perché tanto si tradurrebbe nella non consentita elusione del regime di tassatività dei casi di impugnazione e dei mezzi esperibili“.

Ciò premesso, con riferimento all’imputazione alternativa “si è evidenziato che è abnorme il provvedimento con cui il giudice dell’udienza preliminare dichiari la nullità della richiesta di rinvio a giudizio laddove essa non determina violazione del diritto di difesa, sempre che, però, i fatti nella loro materialità siano specificatamente descritti“.

Nel caso di specie, tuttavia, “non si è di fronte ad un atto abnorme, avendo il Tribunale esercitato legittimamente la propria facoltà di verificare se il decreto che dispone il giudizio rispetta il criterio dell’enunciazione in forma chiara e precisa del fatto di reato (art. 429 cod. proc. pen.): invero, a seguito delle modifiche apportate dal PM nell’udienza preliminare, si è data vita, non a una imputazione alternativa, ma a una “imputazione ibrida“, per cui nella unitaria contestazione si rinvengono – sovrapposti in modo indistinto – elementi costitutivi di entrambe le fattispecie“.

Inoltre – si legge nella sentenza – “per la nuova contestazione dell’abuso di ufficio, non sono stati neppure indicati tutti gli elementi strutturali della fattispecie (ad esempio, manca il riferimento all’intento di “procurare ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero a arrecare ad altri un danno ingiusto”). Infine, l’aggravante di cui al secondo comma dell’art. 353 cod. pen. – la cui indicazione in fatto è riferita alla complessiva imputazione – non è in alcun modo correlabile all’abuso di ufficio“.

Sulla base di tali principi, la sesta sezione ha concluso affermando che “non è certamente illogica l’argomentazione del Tribunale secondo cui tale tecnica contestativa si è risolta in una imputazione incerta sotto il profilo della qualificazione giuridica, quindi carente dei requisiti di certezza e precisione espressamente richiesti a pena di nullità“.

Redazione Giurisprudenza Penale

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